L’Occidente sfruttatore e terrorista

A chi il petrolio e le braccia dell’Islam e dell’Asia?
A noi! Con ogni mezzo. Atomiche incluse.


Terrorismo e Islam sono le "parole-chiave" che l’informazione ufficiale usa in relazione alla nuova guerra lanciata dall’Occidente. Non una riga su petrolio, profitti, manodopera nella regione mediorientale e nel continente asiatico tutto. È bene allora richiamare alcune semplici verità su queste altre "parole-chiave", chissà perché scomparse -a comando- dalla propaganda democratica dell’imperialismo...


Con il 13% della popolazione mondiale, gli Stati Uniti, la Cee e il Giappone consumano quasi due miliardi di tonnellate di petrolio all’anno, il 52% della produzione mondiale (dati relativi al 1999 tratti dall’edizione 2000 della Bp Amoco Statistical Review of the World Energy). Ben i tre quinti di questo mare di petrolio viene da essi importato dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina. Un’area di rifornimento domina su tutte le altre: il Golfo Persico. Da lì provengono il 39% delle importazioni petrolifere dell’Europa occidentale, il 78% di quelle giapponesi e il 23% di quelle statunitensi. Le percentuali aumentano sensibilmente se si considera il mondo islamico nel suo insieme: che incorpora -a fianco dei paesi mediorientali- giganti petroliferi come l’Indonesia in Estremo Oriente, come l’Algeria e la Libia in Africa, o come l’Azerbaigian in Asia centrale.

In questi numeretti s’esprime non solo il dominio monopolistico esercitato da un pugno di super-stati sulla gran parte dei paesi e dei popoli del mondo, alla faccia di tutte le menzogne sull’uguaglianza delle nazioni. Ma anche l’importanza che riveste per l’Occidente il controllo (a prezzi per esso ragionevoli) dell’area mediorientale e del mondo islamico tutto. Privati di tale controllo, gli Stati Uniti, la Cee e il Giappone si troverebbero in ginocchio. Non solo perché incapaci di sviluppare l’enorme quantità di energia di cui necessita la loro vita economica e sociale. Ma anche perché sprovvisti della materia prima di base in alcuni settori economici centrali quali quello chimico-farmaceutico (da cosa pensate venga fuori la plastica?), quello automobilistico, quello agricolo...

Questa dipendenza diventerà ancor più forte negli anni a venire.

Attualmente, infatti, gli Stati Uniti e la Cee sono in grado di produrre una quota del petrolio che consumano: quasi 700 milioni di tonnellate. Le loro riserve di idrocarburi si stanno però esaurendo: al ritmo di estrazione attuale, dureranno solo un’altra decina d’anni. Quelle situate nel sottosuolo del Medioriente e dell’Asia centrale, invece, ben dieci volte tanto: quasi un secolo.

La cartina offre un bel colpo d’occhio su questa situazione.

Da essa emerge anche un altro fatto: è ancora il mondo arabo e islamico a comprendere le zone cruciali attraverso le quali passano le vie del trasporto dell’oro nero dai campi d’estrazione ai paesi occidentali: il canale di Suez, lo stretto di Ormuz nel Golfo Persico, lo stretto delle Molucche tra Indonesia e Malesia... E la regione che va dal Caucaso all’Asia centrale. Per decenni sotto il controllo dell’ex-Urss, tale zona riceve da tempo (non dall’11 settembre!) le attenzioni degli Stati Uniti e dell’Europa. Affinché le loro multinazionali mettano le mani sul petrolio e sul gas caspici. E affinché si aprano da lì nuove vie di trasporto sotto stretto controllo occidentale alternative a quelle già esistenti legate alla Russia. Al momento si contendono il mercato diversi progetti occidentali: la via turca, quella afghana, quella albanese...

Benché in lizza tra loro e legati a gruppi capitalistici e a progetti imperialistici contrastanti, la loro realizzazione richiede comunque una identica condizione: che l’area interessata sia messa sotto il giogo occidentale. Il che vuole dire due cose insieme. Da un lato che non deve emergere nessuna potenza asiatica (sei in linea Pechino?) in grado di fungere da polo di attrazione per i paesi e i popoli della regione in una chiave anti-occidentale (seppur tutta borghese). Dall’altro lato che le masse lavoratrici della zona -in gran parte musulmane- accettino di vivere in condizioni via via più misere, sotto il torchio di regimi autocratici e servili verso i padroni occidentali, senza neanche lontanamente sognarsi di usare alle condizioni ottimali per sé, per un proprio futuro meno nero e non per l’Occidente, le uniche ricchezze di cui al momento dispongono, e cioè le loro braccia e gli idrocarburi...

Ecco una delle ragioni per cui i paesi imperialisti da anni e anni si danno da fare per prendere in mano quella che viene definita la "chiave" verso l’Asia, e cioè l’Afghanistan. Per cui hanno iniziato quella sporca guerra di cui ha parlato Bush, e che l’attacco contro le Torri e il Pentagono non ha acceso ma solo accelerato.

Da essa dipende anche un altro target imperialista.

Nel capitalismo decadente del XXI secolo una percentuale crescente dei profitti e dei sovraprofitti globali sarà estratta dalla manodopera del continente asiatico, quella del mondo musulmano accompagnata dai lavoratori del subcontinente indiano e da quelli cinesi. In tutto la bazzecola di tre miliardi e mezzo di persone (con un settore di esse messo al lavoro nelle stesse metropoli). È vitale per i centri finanziari di New York, per il Pentagono e per l’intero circuito capitalistico occidentale che questa gallina dalle uova d’oro non cada nelle mani di una potenza capitalistica continentale (sei in linea Pechino?) o addirittura si metta in testa strani vagheggiamenti di emancipazione sociale e nazionale (all’inizio magari sotto la forma del rilancio dell’asianesimo o dell’internazionalismo islamico o del nazionalismo maoista o della difesa delle proprie tradizioni religiose contro l’invadenza della vampiresca e subdola civiltà cristiana...).

La "libertà duratura" serve anche a raggiungere questo scopo. Attraverso la collocazione di una sentinella armata dell’Occidente nel cuore dell’Oriente: in Afghanistan, sul tetto del mondo. Con i mirini puntati, da lì, contro gli sfruttati dell’intero continente.

Alle potenze imperialiste non basta più affidarsi a burattini locali. Il tentativo fatto in tal senso negli anni Novanta è fallito. Hanno bisogno di schierare direttamente le proprie forze armate. E di tornare ad agitare, contro i popoli e i lavoratori dell’Asia, la minaccia del fungo atomico.

Le parole "sfuggite" al ministro Rumsfeld non sono casuali.

Una favola racconta che nel 1945 gli Stati Uniti sganciarono le bombe nucleari sul Giappone per costringere alla resa un governo che non voleva saperne di arrendersi, e per evitare perdite umane ancor più alte di quelle prodotte dai bombardamenti di Hiroshima e di Nagasaki. La tesi fu confezionata a Washington dall’amministrazione Truman, nelle stanze del potere della Casa Bianca e del Pentagono. E fu ripetuta per decenni, in piena libertà, nella stragrande maggioranza dei libri di testo di storia occidentali. Una menzogna di stato. L’obiettivo dei bombardamenti nucleari fu ben altro.

Al termine della seconda guerra mondiale le masse lavoratrici cinesi erano alla testa di un travolgente moto di liberazione che chiamava alla riscossa i popoli di tutto l’Oriente, dall’Indonesia alla Palestina. Un moto che poteva alimentare e collegarsi coi focolai di lotta di classe apertisi in Europa, soprattutto in Italia, in Jugoslavia, in Grecia, in Polonia... "Ecco con cosa dovrete fare i conti, se vi azzarderete a resistere alla nostra volontà", mandò a dire il nuovo boss del mondo capitalistico al popolo cinese, alle masse oppresse dell’Oriente, al proletariato internazionale: "col terrore nucleare."

Hiroshima e Nagasaki furono un esperimento sul futuro che si avvicina.