L’ininterrotta guerra dell’imperialismo all’Islam e l’indomito moto rivoluzionario delle masse islamiche


Indice

Il panarabismo un punto di partenza...


Un complotto. Così viene definito l’attacco contro le Torri e il Pentagono anche da chi riconosce -giustamente- che esso non sarebbe stato possibile senza gli squilibri Nord-Sud, la povertà e la violenza scaricate quotidianamente dal capitalismo globalizzato sul mondo islamico e su tutte le periferie. Anche per il 99% di costoro, però, l’azione dell’11 settembre non avrebbe niente a che fare con la lotta che le masse lavoratrici islamiche conducono da tempo immemorabile contro tale oppressione. O quantomeno ne rappresenterebbe una scheggia disperata, artificiosa, foriera solo di contraccolpi negativi.

Noi la vediamo diversamente. E cerchiamo di spiegarlo nell’articolo che segue, mettendo a fuoco le radici dell’"islamismo radicale" e il ruolo che esso sta svolgendo nella lotta dei popoli e degli sfruttati islamici per la propria "redenzione" nazionale e sociale.


Cominciamo col dire seccamente come la vediamo.

Nessun complotto o scheggia disperata. L’azione dell’11 settembre esprime la necessità delle masse lavoratrici e diseredate del mondo islamico (e ben oltre di esso) di far fare uno scatto in avanti alla propria plurisecolare lotta contro l’Occidente. Quale scatto in avanti? Quello di non limitarsi più a resistere ciascuno in "casa propria", in Iraq, in Palestina, in Indonesia o a Cuba o in Sudafrica. Ma di portare tutti insieme la propria sacrosanta guerra difensiva e di emancipazione anche nella tana del lupo imperialista.

Premessa la tesi, vediamo le ragioni (vicine e meno vicine) che ci conducono ad essa e, quindi, le conseguenze politiche che ne derivano.

La nascita dell’islamismo radicale

Sono pochi i lavoratori e i giovani bianchi d’Occidente che arrivano a negare l’esistenza nel mondo arabo e islamico di infernali ingiustizie. Altrettanto pochi però sono coloro che vedono in atto una battaglia senza tregua contro di esse da parte delle masse lavoratrici dell’area. Di solito queste ultime vengono viste -quando va bene!- come vittime impotenti di un tragico destino. Come sfortunati da compiangere. Raramente come fratelli di lotta con cui unirsi in un fronte comune contro un nemico che, al fondo, è comune. Ancor più raramente come oppressi e proletari già in marcia, pur se dietro bandiere illusorie, la cui marcia è frenata da una sola palla di piombo: la mancata solidarietà incondizionata e militante, non parolaia del proletariato occidentale.

La resistenza dei popoli musulmani al giogo capitalistico occidentale ha invece una lunga storia alle proprie spalle. Sin dal momento in cui le potenze europee (con l’assedio francese ad Algeri nel 1830) diedero il via all’occupazione coloniale del mondo arabo e islamico, si trovarono di fronte alla fiera reazione delle genti che lo abitavano. Ne seppe qualcosa anche l’Italia in Libia, dove impiegò vent’anni a spezzare la resistenza delle tribù arabe. (Con quali metodi? Quelli propri della civilizzazione capitalistica: "Le baionette, le pallottole, la corda, il fuoco, gli stupri" denunciò nel 1912 il marxismo rivoluzionario con la voce di Lenin nello scritto La fine della guerra dell’Italia contro la Turchia.)

Le popolazioni islamiche non seppero impedire che la barbarie della civiltà europea calasse sulle loro vite. Ebbero la forza, però, di non arrendersi mai, e mai smisero di organizzarsi e di battersi, in Algeria come in Mesopotamia e in Indonesia, per scrollarsi di dosso il dominio europeo. Realizzarono il loro sogno dopo la seconda guerra mondiale, quando le colonie conquistarono l’indipendenza e la lunga storia della loro lotta arrivò a condensarsi nel progetto panarabista di un mondo arabo unito in un solo stato. L’unificazione politica degli stati arabi rimase però una chimera, come ricordiamo nel riquadro. Ogni stato agì di fatto per conto proprio, tentando di collocare profittevolmente sul mercato internazionale le risorse indigene (le materie prime, quella petrolifera innanzitutto) e di utilizzare il ricavato di queste relazioni economiche non per rimpinguare i forzieri occidentali (com’era accaduto durante l’epoca coloniale), bensì per sviluppare una moderna industria locale, sostenere la riforma agraria, garantire l’uscita del paese dal sottosviluppo e allinearlo agli standard raggiunti dai paesi occidentali.

Questa politica non solo non aveva niente a che fare col socialismo (benché fosse così presentata), ma non aveva neanche alcuna possibilità di realizzazione entro gli asfittici confini delle singole ex-colonie in cui era tentata. La conferma di questa previsione del marxismo rivoluzionario arrivò di lì a poco. I primi passi in avanti compiuti sulla strada della modernizzazione (grazie fondamentalmente all’impeto della mobilitazione popolare) furono ben presto bloccati: lo sviluppo (nel sottosviluppo) prima si arrestò e poi s’invertì. A produrre quest’esito furono proprio i meccanismi di funzionamento del mercato capitalistico che i nuovi stati indipendenti credevano di poter mettere a frutto a proprio favore. Ne furono invece stritolati e si ritrovarono sottomessi -benché indipendenti sul piano politico- a una nuova forma di saccheggio coloniale, quello operato mediante le cannoniere della finanza sotto il vigile controllo delle portaerei termo-nucleari. (1)

È questa dura e fallimentare esperienza storica ad aver spinto le masse lavoratrici dell’area a rimettersi in cammino negli anni Settanta, per un secondo tempo della rivoluzione antimperialista. Questa volta trovando la propria bandiera non più nel socialismo arabo e islamico bensì nel fondamentalismo islamico. L’unica ideologia in grado di esprimere, in assenza di un movimento comunista internazionale degno di questo nome, la necessità di non disertare il terreno di lotta e, nello stesso tempo, di farlo capitalizzando gli insegnamenti sedimentati dal primo tempo della battaglia antimperialista: da un lato, l’impossibilità di potersi liberare dalla dominazione imperialista paese per paese, mantenendo separato il fronte di lotta all’interno dei confini degli stati arabi e islamici; dall’altro lato, l’impossibilità di uscire dal sottosviluppo inserendosi -da concorrenti ultimi arrivati- nel sistema capitalistico internazionale. Il richiamo all’intera Umma come soggetto e scenario del percorso di liberazione, la contrapposizione dei valori islamici a quelli della "decadente civiltà materialistica" del Nord del mondo esprimevano (nella forma deviata dell’ideologia religiosa) questa duplice esigenza della risorgente battaglia antimperialista delle masse arabe e islamiche.

Non è, quindi, nessuna presunta arretratezza culturale ad aver spinto e a spingere queste ultime dietre le bandiere dell’islamismo, o meglio di un certo islamismo, quello che -pur spesso demagogicamente- proclama la jihad contro l’Occidente. La forza motrice di tale moto è invece la loro fisica urgenza di unirsi al di sopra dei confini statuali in cui il colonialismo europeo ha diviso il mondo islamico e di combattere contro l’imperialismo. È qui che trova le sue radici il secondo tempo del moto rivoluzionario islamico. Quello che ha conosciuto una nuova ondata, è la terza per la precisione, in quest’ultimo anno e all’interno della quale va collocato l’"internazionalismo islamico" di bin Laden.

Il terremoto iraniano, il terrorismo occidentale

La nuova ondata della rivoluzione antimperialista si abbatté prima di tutto (era il 1979) sull’Iran dello scià, gettando a mare questo baluardo della dominazione occidentale. Da lì si allargò al resto dell’area, fecondata dalle rivolte del pane scoppiate contro i provvedimenti affamatori presi dai governi locali su "consiglio" del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.

Gli stati e la finanza occidentali si vennero a trovare in una situazione critica. Nel pieno di una nuova recessione internazionale, videro traballare il dominio sull’area da cui proviene la loro linfa vitale, il petrolio. Videro farsi avanti lo spettro di una trascrescenza comunista dell’insurrezione iraniana (nella quale agiva una corrente marxista che -a causa dell’isolamento internazionale- rimase in seguito strangolata). Paventarono che questo terremoto potesse saldarsi con l’insubordinazione dei popoli dominati in America Latina, dove un’altra insurrezione -quella nicaraguegna- aveva rilanciato il processo rivoluzionario in tutta l’area, e con la ripresa delle lotte proletarie in atto in Occidente e all’Est (vedi per tutti il caso polacco).

L’istinto di sopravvivenza della bestia capitalistica scattò immediatamente. Senza farsi alcuno scrupolo. Contro la marea montante della ribellione degli oppressi e la loro possibile unione fu scatenata una controffensiva a tutto campo, che da allora ad oggi ha avuto di mira soprattutto il mantenimento e l’approfondimento dell’abisso che da decenni separava -e purtroppo separa ancora- il proletariato occidentale dalle masse lavoratrici islamiche e terzo-mondiali.

Tale controffensiva contro-rivoluzionaria non si limitò alla manovra economica, come era accaduto davanti alla marea della rivoluzione anti-coloniale. I governi e la finanza occidentali non si limitarono a speculare con i tassi d’interesse, a soffocare i paesi e i popoli ribelli con il cappio del debito estero, a spingere al ribasso il prezzo delle materie prime, ad ordinare -in Medioriente- all’Arabia Saudita e agli altri burattini locali di pompare petrolio a più non posso per farne cadere il prezzo e dare una lezione all’Iran. Alle scosse sismiche del 1979 l’Occidente rispose anche con l’intervento militare. Sia appaltato a terzi. Sia gestito in prima persona. Il mondo arabo-islamico ebbe ancora una volta un trattamento di favore.

Nel giro di pochi mesi nel 1980-’81, l’imperialismo spinse l’Iraq di Saddam Hussein ad azzannare la rivoluzione iraniana. Incoraggiò Israele a invadere il Libano, per spegnere il focolaio d’incipiente affratellamento tra sfruttati di razza e religione diverse catalizzato dall’ardente fiamma dei profughi palestinesi. Sabra e Chatila. Incoraggiò i vertici militari turchi ad instaurare la dittatura così da reprimere la lotta di liberazione nazionale dei curdi e quella dei lavoratori delle diverse nazionalità del paese...

Una tenaglia di terrore si chiuse sulle masse oppresse dell’area. Ma non bastò. La loro insubordinazione era così radicale che i veri terroristi esistenti sulla Terra furono costretti a tornare a impiegare contro di essa le loro stesse forze armate. A rispolverare i "vecchi" metodi coloniali. Con la spedizione in Libano, innanzitutto. Seguita da una serie di interventi "chirurgici" a raggio crescente: contro la Libia nel 1986, contro l’Iran nel 1987, contro l’Iraq nel 1990-’91.

Nello stesso tempo, e siamo al terzo tassello della controffensiva militare dell’Occidente, gli Stati Uniti predisposero il terreno per aprire un nuovo fronte di guerra in Afghanistan. (2) Così da accerchiare anche da nord l’Iran rivoluzionario, soffocare nella culla la rivoluzione antimperialista alfine giunta sino a Kabul e dare la spallata finale a quell’Urss che si frapponeva in qualche modo al saccheggio di centinaia di milioni di lavoratori nell’Europa dell’Est, nella regione caucasica e nell’Asia centrale. A tal fine istruirono l’Arabia Saudita e il Pakistan affinché dirottassero nella guerra suscitata contro il governo filo-sovietico di Kabul la gioventù islamica radicale in tumultuosa e pericolosa crescita nei vari paesi dell’area...

Non c’è che dire. Ne ha fatti davvero molti di sacrifici l’Occidente per far avanzare il progresso della nazione araba e del mondo islamico. L’analisi dell’operazione afghana lo confermerà ancor meglio.

Una magia fallita

Snodo non secondario dell’arruolamento verso l’Afghanistan di nuclei giovanili fondamentalisti è stato il sistema bancario islamico decollato, anch’esso, alla fine degli anni Settanta. L’iniziativa era stata promossa dalle petro-monarchie della penisola arabica. Trovava il suo carburante nei petro-dollari di cui esse vennero a disporre dopo l’aumento dei prezzi del 1973. Fu lanciata con una duplice finalità.

Da un lato offrire un circuito finanziario adeguato alle richieste della classe media musulmana cresciuta all’ombra dei petro-dollari. Dall’altro lato distribuire una parte degli introiti delle banche islamiche per finanziare le moschee e le attività assistenziali legate ad esse, al fine di integrare la gerarchia religiosa nei regimi esistenti e imbrigliare le masse giovanili urbane nella promessa sociale dell’Islam sunnita, evitando così la pericolosa deriva iraniana. I settori più militanti del radicalismo islamico furono inoltre invitati a partecipare alla guerra in Afghanistan: ad essi si disse che la liberazione del dar-el-islam dall’invasore ateo sovietico avrebbe aperto per davvero le porte al regno islamico della giustizia, al contrario di quanto si piccava di aver fatto la rivoluzione khomeinista. Si stabilì così -momentaneamente- un blocco sovrannazionale tra borghesia islamica, petro-monarchie, gerarchie religiose e gioventù radicale.

L’Occidente benedisse questa operazione. La sovvenzionò. Incoraggiò nei territori afghani controllati dalla "guerriglia" la coltivazione e la lavorazione dell’oppio (da destinare ai mercati occidentali: ahi, la civiltà superiore, ahi la lotta contro la droga!) per finanziare la guerra contro Kabul. Rifornì di armi e istruì militarmente le decine di migliaia di militanti fatti affluire da tutto il mondo nei campi pakistani e afghani. "Per l’establishment saudita la causa sacra della jihad afghana permetteva di tenere sotto controllo potenziali agitatori, distoglierli dalla lotta contro i poteri costituiti del mondo musulmano e contro il grande alleato statunitense, e sottrarli all’influenza iraniana. Negli Stati Uniti la faccenda era intesa così: gli ‘jihadisti’ combattono ‘l’impero del Male’ sovietico, evitando ai boys del Middle West di rischiare la vita, e le petromonarchie pagano il conto, per il sollievo del contribuente americano." (G. Kepel, Jihad. Ascesa e declino, Carocci, Roma 2001, p. 361)

La "magia" ordita dall’imperialismo intorno alla questione afghana non durò però a lungo. Ed è questo il "dettaglio" che tutte le dotte o grottesche ricostruzioni della storia di bin Laden e dell’estremismo islamico tralasciano di raccontare. Per suscitare tra i lavoratori occidentali, se non il consenso alle operazioni militari, almeno la diffidenza e il disprezzo verso le masse lavoratrici islamiche, per i traffici a cui i settori militanti di esse si sono lasciati coinvolgere (a causa, fondamentalmente, delle nostre responsabilità politiche). Per noi tale "dettaglio" è invece sommamente significativo perché rivelatore del vulcano sociale su cui poggia l’ordine imperialista della regione.

La guerra del Golfo

A spezzare l’incantesimo contro-rivoluzionario compiuto intorno all’Afghanistan fu la madre di tutte le battaglie, ossia la guerra del Golfo, questa seconda ondata -dopo quella iraniana del 1979- del secondo tempo della rivoluzione antimperialista dei popoli e dei lavoratori islamici. (1) Il "Massacro nel Deserto", l’embargo contro l’Iraq, l’occupazione dell’Arabia Saudita con migliaia di soldati occidentali, insieme all’abbandono -dopo il ritiro dell’Armata Russa- dei settori "meno controllabili" della "resistenza afghana" da parte dei protettori statunitensi, aprirono gli occhi ai militanti più radicali della "brigata islamica internazionale" che s’era formata in Afghanistan. Tra costoro c’è bin Laden.

"Secondo loro -racconta T. Terzani sul Corriere della sera del 16.9-, con la fine della guerra fredda l’Occidente ha scoperto sempre più le sue carte e sempre più chiaro appare il progetto -per loro diabolico- di incorporare l’intera umanità in un unico sistema globale che, grazie alla tecnologia in suo possesso, dia all’Occidente l’accesso e il controllo di tutte le risorse del mondo, comprese quelle che il Creatore -non a caso, secondo i fondamentalisti- ha messo nelle terre dove è nato e si è esteso l’Islam: dal petrolio del Medio Oriente al legname delle foreste indonesiane."

L’Occidente riuscì a strumentalizzare per qualche altro anno un settore di questa brigata internazionale, inviandolo a combattere in Bosnia e in Cecenia e gettando nuova benzina nel processo di divisione degli oppressi di queste aree secondo linee razziali e religiose. (Quanti si sono scandalizzati e si sono operativamente attivizzati contro questo nuovo crimine? Ricordiamo male, oppure l’"anti-americana" Rossanda arrivò a incoraggiarlo, invocando nel ’95 i bombardamenti Nato-Onu sulla Bosnia?) Il grosso della brigata internazionale fu tuttavia attratto verso un’altra direzione.

Esso si suddivise in gruppi che tentarono di inserirsi nelle crisi sociali e politiche aperte nei paesi islamici dipendenti dall’Occidente: in terra di Palestina, in Algeria, in Egitto, in Somalia. Cercarono di farle diventare punti di partenza per lo sviluppo di una guerra santa internazionale contro la crociata occidentale. L’innesto fallì. Sottoposta al fuoco terroristico dell’Occidente, infiltrata da agenti provocatori che la sospinsero verso direzioni centrifughe, orientata da una prospettiva fallimentare qual è quella dell’Islam, questa tendenza fu disorganizzata, isolata dalla massa degli oppressi e quasi sterminata nel corso degli anni Novanta, in Algeria come in Egitto. (Qualcuno qui in Europa si è indignato e ha protestato per questo massacro di decine di migliaia di proletari e di giovani islamici in lotta contro l’Occidente e i suoi manutengoli e massacratori locali?)

Tuttavia, a far fallire l’"innesto"è stato fondamentalmente un altro fattore: il rinculo subìto dalla mobilitazione delle masse lavoratrici arabe e islamiche nel corso degli anni Novanta.

Un nuovo ordine strangolatorio

Lasciata sola dal proletariato occidentale, l’insorgenza proletaria e plebea catalizzata nel 1990-’91 dalla cancellazione della dinastia dei Sabah da parte di Saddam Hussein fu stroncata sul nascere dalla vittoria militare della coalizione imperialista. A ciò si aggiunse la promessa con cui gli Stati Uniti accompagnarono il "Massacro nel Deserto": "liberato" il Kuwait, si sarebbero dati da fare per modificare l’ordine regionale in modo da sanarne le ingiustizie e gli squilibri sociali. Era la promessa del nuovo ordine mondiale. Gli sfruttati e i diseredati islamici, sotto il peso della provvisoria sconfitta militare, stettero a guardare. Oslo sembrò dar credito ai loro occhi al gioco illusionistico dell’Occidente. Anche tra i palestinesi, che pure erano stati tra i più attivi nella mobilitazione contro la guerra del Golfo, subentrò un sentimento di attesa.

Mese dopo mese, però, apparve chiaro cosa significasse il nuovo ordine mondiale per il mondo islamico: un nuovo gradino disceso nell’inferno del sottosviluppo e della miseria. Lo è cominciato ad essere anche per un paese che, come l’Arabia Saudita, poteva vantare una certa solidità economica e che si ritrovò alle prese, per la prima volta nella sua storia, con l’occupazione da parte di truppe straniere e con il dissesto finanziario. Ancora qualche mese, e il nuovo ordine mondiale fece arrivare i suoi benefici effetti in Estremo Oriente, sui giganti islamici dell’Indonesia e della Malesia, derubati e affossati dalla morsa spietata del capitale finanziario occidentale. (Quale profondo dolore sentimmo, noi bianchi cristiani d’Occidente, sentimmo per le tante vite, giovani e meno giovani, mietute dalla fame e dalla denutrizione causate da questa brillante operazione di borsa architettata nei piani alti delle Torri…). Ancora qualche mese, e a mostrare il suo vero volto è l’autonomia palestinese…

L’embargo contro l’Iraq, la sua riconferma periodica da parte dell’Onu (la sede della giustizia internazionale?), le sofferenze della sua infanzia ritrasmesse in ogni angolo dell’Islam da Al-Jazira vennero a rappresentare il simbolo del comune destino riservato dall’Occidente all’intero mondo arabo e islamico.

La ripresa della lotta rivoluzionaria

Non c’è altra via che la ripresa della lotta: questa la conclusione cui furono di nuovo costrette le masse lavoratrici. E la mobilitazione, negli ultimi due-tre anni, è ripresa. In Libano con la guerra contro l’occupazione sionista, in Palestina con la nuova Intifada, in Indonesia e in Turchia con lo sviluppo di scioperi e manifestazioni contro la politica d’austerità imposta dalle banche occidentali, in Algeria con il contagio della rivolta berbera al resto della popolazione lavoratrice... È ripresa, soprattutto, con la percezione di doversi misurare con l’imperialismo a un nuovo livello di scontro.

È questo processo di sotterranea maturazione a ridare respiro e propulsione all’unica tendenza della "brigata internazionale afghana" che era riuscita nel corso degli anni Novanta a non seguire la parabola discendente e disgregatrice dei jihadisti: quella raccolta attorno a bin Laden. Vi era riuscita per effetto dell’intuizione politica che l’aveva guidata. Quella di dover alzare il tiro nello scontro con l’imperialismo. Di doverlo colpire nella sua tana per fargli davvero male. E di doverlo fare scegliendo nell’attacco le modalità e i tempi adeguati al raggiungimento dell’obiettivo di ricollegare (diversamente da quanto era accaduto in Algeria e in Egitto) l’organizzazione d’"avanguardia" del Fronte di Combattimento Internazionale all’unica forza in grado di cacciare "i crociati e i sionisti" dal suolo islamico: e cioè il miliardo e duecento milioni di islamici, uniti insieme oltre le barriere statali e nazionali.

L’azione militare contro le Torri e il Pentagono (cioè contro i centri nervosi del potere finanziario e militare che ha schiacciato il mondo islamico) si sviluppa da questo percorso. Essa rappresenta il tentativo di un gruppo organizzato di militanti islamici di rispondere ai problemi posti dall’incipiente ripresa della mobilitazione dei popoli islamici. Non parte quindi a freddo, né arriva a siglare una sconfitta subìta dalle masse lavoratrici dell’area. Non le espropria politicamente, le chiama all’azione. Non le demoralizza, le incoraggia. Mostra loro che la Bestia Occidentale, quella che le aveva terrorizzate nei vent’anni precedenti e che era riuscita ad avere costantemente la meglio, non è invulnerabile.

Questa nuova ondata del moto anti-imperialista delle masse oppresse islamiche sembra essere più debole e arretrata di quelle che l’hanno preceduta. In realtà è più estesa e a più alta potenzialità rivoluzionaria.

L’insurrezione iraniana del 1979 rimase limitata entro i confini del paese. Con Saddam Hussein fu compiuto un passo in avanti: fu messa in discussione la frantumazione coloniale nel Golfo, ma limitatamente ad una località. Oggi l’islamismo radicale raccolto attorno a bin Laden chiama la nazione islamica dall’Atlantico al Pacifico, osa violare i confini delle metropoli e si propone la costituzione di un’unico stato islamico. Innescando con ciò uno scontro che va ben oltre le sue intenzioni, uno scontro destinato a terremotare l’ordine imperialista, nell’area e nelle metropoli. Non è un caso che mai come questa volta gli stessi analisti borghesi paventino il rischio che la mobilitazione popolare arrivi a buttare giù alcuni regimi dell’area, da quello pakistano a quello saudita o egiziano, e a regolare i conti una volta per tutte, nel caso dei palestinesi, con la direzione arafattiana.

La ripresa del moto anti-imperialista in corso sembra inoltre più debole perché priva di quei supporti statali e istituzionali che aveva conosciuto in passato. Non c’è dietro di essa lo stato e la gerarchia religiosa khomenista come nel 1979, non c’è lo stato iracheno o la direzione palestinese come nel 1990-’91. Stavolta, con l’eccezione di Saddam, i paesi arabi e musulmani hanno preso le distanze dall’attacco contro gli Stati Uniti e dichiarato legittima una punizione dei responsabili, purché chirurgica. Anche un Gheddafi s’è accodato alla cordata, ed è tutto dire. Da parte sua la gerarchia religiosa islamica, che pure aveva rappresentato una serra per lo sviluppo dell’islamismo radicale, è molto più defilata o schierata essa stessa contro l’avanzamento della lotta anti-imperialista di massa al nuovo livello espresso dall’attacco dell’11 settembre.

Il fronte islamico si spacca, e si radicalizza.

Indicativo quello che è accaduto in Palestina. Mentre i palestinesi gioivano (solo loro? o non anche gli oppressi di tutto il Sud e l’Est del mondo?), Hamas ha condannato l’azione armata contro le Torri e il Pentagono: ha rivendicato la legittimità degli attacchi contro Israele, ma non quelli contro l’Occidente. Solo la terra di Palestina è occupata, ha specificato, e quindi solo qui ammettiamo la guerra difensiva. "Ma come, non è occupato anche il resto del mondo arabo e islamico, ci siano o no truppe occidentali o sioniste?, il bastione israeliano come potrebbe conservarsi senza una certa divisione dell’area e la copertura dell’Occidente?" Queste le domande che cominciano a circolare nelle vene dei popoli e degli sfruttati islamici, palestinesi e non. E con esse la percezione che la lotta antimperialista del mondo islamico sta all’Occidente come quella palestinese (che ne è un tassello) sta ad Israele. Possiamo dar loro torto?

Il panarabismo
un punto di partenza...

Il marxismo rivoluzionario salutò con ardore lo sviluppo negli anni Cinquanta dell’ideale paranabista tra i popoli e i lavoratori del Medioriente. Convinto che la balcanizzazione della regione convenisse solo all’imperialismo, vedeva l’unificazione dell’enorme territorio e dell’estesa popolazione all’interno di un unico stato come la sola via per resistere ai ricatti e alle lusinghe dei monopoli occidentali e per superare l’arretratezza economica e sociale dell’area.

"Cosa avverrebbe -scrisse Bordiga nel 1958- se gli arabi, superate le disunioni suicide, riuscissero a fondare uno stato nazionale abbracciante tutti i territori africani e asiatici abitati da popolazioni arabe? Avremmo soltanto il risveglio dell’Africa intera?" No, rispondeva. Avremmo il punto di partenza di un processo rivoluzionario che risveglierebbe e farebbe maturare politicamente le masse lavoratrici del mondo arabo (e non solo) e che, soprattutto, aggravando la crisi permanente dell’imperialismo, scuoterebbe il proletariato occidentale dal suo torpore.

Due erano le vie percorribili per unificare il mondo arabo dall’Atlantico al Golfo persico. O la conquista militare da parte di uno stato egemonico che cancellasse à la Bismarck le partizioni statali imperanti o una rivoluzione delle classi inferiori che, distruggendo l’ordine costituito, gettasse le premesse della fondazione di uno stato unitario. La prima alternativa fu resa impossibile dall’assenza di uno stato arabo militarmente forte e politicamente influente, capace di svolgere le stesse funzioni che, in altre circostanze storiche, svolsero la Prussia per la Germania e il Piemonte per l’Italia. La seconda alternativa non riuscì ad affermarsi per motivi non solo e non tanto locali, quanto attinenti all’assenza di un movimento proletario rivoluzionario nelle metropoli imperialiste. Rimase così sulla breccia solo l’iniziativa dei Nasser, cioè delle direzioni borghesi raccolte attorno alla bandiera "socialista" di Mosca. Esse tentarono di unificare il mondo arabo attraverso le intese tra stati, ma tale progetto si rivelò fallimentare perché non andava ad attaccare le radici storiche del separatismo arabo, che non attenevano solo al dominio occidentale (e prima di esso turco) ma anche alla presenza di tradizioni interne conservatrici.

La modernizzazione avvenuta da allora nella compagine economica e sociale dei paesi arabi non ha fatto venir meno l’esigenza di superare la balcanizzazione dell’area. Al contrario. L’ha resa più pressante. Necessaria anche solo per frenare l’opera di distruzione compiuta dal capitalismo globalizzato di quel poco di (distorto) sviluppo avviato nei decenni passati. Ne ha inoltre dilatato i confini, dato che oggi -per lo stratosferico grado di accentramento raggiunto dal capitale imperialista e per il mostruoso potere militare ad esso associato- la stessa semplice unificazione dei paesi arabi è diventata insufficiente. Occorre estendere a tutto il mondo islamico l’area della duplice rivoluzione contro l’ingerenza straniera e le classi reazionarie-compradore interne, oltre il Nordafrica verso l’Africa nera, oltre il Golfo persico verso l’Asia centrale e l’Indonesia.

Oggi più che ieri c’è solo una via per portare avanti una simile battaglia: la lotta e l’organizzazione delle masse arabe e islamiche, la radicalizzazione dell’una e dell’altra secondo la dinamica della rivoluzione in permanenza nella prospettiva della rivoluzione comunista internazionale.

(Il problema delle azioni armate in Palestina -solo in Palestina come sostiene Hamas?- non potrebbe essere scansato da un’organizzazione comunista agente in loco. Essa lo imposterebbe naturalmente in modo ben diverso da come viene portato avanti da Hamas: nella scelta degli obiettivi -evitando discoteche, fermate degli autobus- in modo da selezionarli in funzione della loro significatività e della riduzione al minimo possibile delle vittime tra i proletari ebrei; nell’azione di propaganda e di agitazione politica verso le masse palestinesi e verso i lavoratori ebrei con cui accompagnare le azioni armate, in modo da far leva sui risultati dei colpi militari per favorire la polarizzazione di classe all’interno di Israele e la fraternizzazione delle masse sfruttate dei due popoli.

Il fatto che al momento non esista una forza comunista in terra di Palestina non significa che -magari nel nome della lotta di massa, del rifiuto marxista dell’anarchismo o della ricercata unità con i lavoratori ebrei- si possano condannare o considerare come grane le azioni che spontaneamente le masse popolari, con le organizzazioni in cui sono al momento raccolte, compiono in tal senso. Lo scontro oramai è giunto al punto tale che azioni simili s’impongono, a meno che il popolo palestinese non si rassegni a farsi armenizzare. Il problema per dei comunisti autentici, siano essi oppure no in Palestina, è quello di riconoscere la necessità della nuova forma di lotta e di un lavoro che sia in grado di portare alla formazione di un’organizzazione di combattimento capace di parteciparvi per orientarla oltre i limiti in cui si dibatte al momento.)

Questa dislocazione politica delle gerarchie religiose islamiche (e dei ceti borghesi che si erano affiancati ad esse) affonda le sue radici in un dato strutturale: nella loro più stretta integrazione nei forzieri dell’Occidente avvenuta nel corso degli anni Novanta. Dopo la guerra del Golfo questi settori cominciarono a fare dei calcoli. Risultò per essi più promettente investire nel casinò del mercato mondiale piuttosto che nei circuiti "alternativi" della finanza etica islamica. Ma i profitti che alimentano tale casinò non provengono anche dal bottino che il meccanismo del capitalismo globalizzato arraffa sulla pelle delle risorse e delle masse lavoratrici islamiche? Come si fa dunque a partecipare a una lotta che mira oggettivamente a scuoterlo, se si dipende da esso per le proprie prebende compradore? Meglio accontentarsi, moderarsi, elaborare una versione democratoide dell’Islam lontana sia dalla versione radicale di Qutb, Madwudi o Khomeini che da quella "salafista jihadista" di bin Laden, e riavvicinarsi all’"odiato" nemico.

Non hanno potuto e non possono sperare in un’analoga sistemazione la gioventù urbana diseredata che s’era organizzata intorno alle moschee e le più sterminate masse lavoratrici e diseredate. Per esse, solo la necessità di continuare e di radicalizzare la guerra santa, e di dotarsi di un’organizzazione conforme allo scopo. Di qui la spinta sociale che ha portato alla frattura intervenuta nell’islamismo radicale nella seconda metà degli anni Novanta e l’enucleazione al suo interno di una tendenza "internazionalista", quella di bin Laden, accolta con crescente simpatia nella popolazione comune e crescentemente osteggiata da quelle alte sfere religiose, politiche e finanziarie del mondo islamico che vent’anni prima ne avevano promosso lo sviluppo.

Le masse oppresse islamiche si sono così trovate via via più sole. Nell’esigenza di continuare il combattimento, pena la morte. Nella gioia per Washington e New York. Nella volontà di rispondere ai nuovi attacchi militari che gli Stati Uniti e l’Occidente stanno preparando contro l’Afghanistan. All’oggi l’isolamento dei sentimenti e della mobilitazione degli oppressi dalle tutele dall’alto in auge nel passato può ritardare, forse, l’entrata in scena -insieme alla gioventù urbana diseredata- della massa profonda degli sfruttati islamici. Ma nel fuoco di uno scontro che avanza e da cui centinaia di milioni di persone che non hanno niente da perdere non possono ritrarsi, questa solitudine è destinata a trasformarsi in elemento di forza. Tende a spostare il baricentro della lotta all’imperialismo verso i proletari e i plebei, li costringe a contare solo sulla propria auto-organizzazione, ad unificare internazionalmente le loro forze e a confrontarsi fino in fondo, senza poter delegare al raìs di turno, col problema cruciale della costituzione di una direzione realmente proletaria della propria battaglia.

L’imperialismo sa vedere questo processo rivoluzionario. Ed è ciò che vuole colpire con lo scatenamento di una nuova, più vasta aggressione al mondo islamico. Lo guida la stessa consapevolezza che, dalla parte opposta, porta noi comunisti a schierarci senza tentennamenti dalla parte delle masse lavoratrici arabe e islamiche, a dare il nostro sostegno militante e incondizionato alla loro battaglia. E a chiamare i lavoratori e gli oppressi bianchi delle metropoli a fare altrettanto.


(1) Ne abbiamo discusso nei precedenti numeri del che fare -in particolare i numeri 19-20-21 sulla guerra del Golfo e il n. 32 sul radicalismo islamico- e nel documento Ancora sulla guerra del Golfo: in risposta alle critiche di parte indifferentista, oltreché nei materiali relativi all’esperienza corrispondente avutasi sulla scacchiera balcanica: quella jugoslava.

(2) Sull’intervento imperialista in Afghanistan vedi l’articolo pubblicato nel n.41 del nostro giornale: "Afghanistan, un capolavoro (incompiuto) dell’imperialismo".