A New York, contro il Wef


L’incontro di quest’anno del Wef (World Economic Forum, il gotha della classe capitalistica) s’è svolto a New York. La City e la Casa Bianca speravano nell’assenza di contestazioni di rilievo per dimostrare che gli Usa sono compatti dietro "libertà duratura". Non è stato così. Il movimento "pacifista", che (pur a ranghi ridotti) aveva manifestato contro la guerra a settembre e a novembre, è tornato in piazza. Con lui altri settori del movimento "no-global" (con una rappresentanza dell’Afl-Cio) in precedenza ridotti al silenzio. Su posizioni, nel complesso, più avanzate di quelle dell’autunno. Ne diamo conto anche sulla base della nostra partecipazione alle iniziative newyorkesi.


In quattro giorni circa 20.000 persone sono scese in piazza. Giovedì e venerdì si sono tenuti numerosi seminari contro la globalizzazione, l’attacco al diritto allo studio e ai diritti sociali elementari, sulla lotta contro i "laboratori del sudore" e sulla distruzione ambientale, sui diritti degli immigrati e sulle nuove politiche repressive del governo americano. A organizzarli è stato quell’insieme di forze composite presente a Seattle: studenti, ambientalisti, anarchici, organizzazioni dei lavoratori immigrati (asiatici e latino-americani), associazionismo americano e il sindacato Afl-Cio, il cui corteo indetto, e poi vietato, è diventato un presidio al quale hanno partecipato circa 3.000 persone.

Alla denuncia appassionata degli effetti della globalizzazione capitalistica s’è saldata una volontà generosa di confrontarsi su come organizzare la lotta contro di essa. La registrazione delle insufficienze e delle difficoltà del "popolo di Seattle" davanti a una sfida rivelatasi più ardua del previsto, non si è tradotta in scoramento. Ha invece generalmente portato ciascuna componente a sfumare la delega alle istituzioni democratiche, a contare solo sulle proprie forze e a rapportarsi al resto del "movimento" per trovare elementi di congiunzione organizzativa, al fine di portare avanti un intervento di denuncia e di mobilitazione tra la massa degli sfruttati e degli oppressi.

Gli studenti del contro-vertice della Columbia University, per esempio, pur nel nome della "democrazia e della giustizia economica", hanno chiamato alla mobilitazione studenti, attivisti, cittadini: "i nostri leader non realizzeranno mai i cambiamenti necessari; è venuto il momento di procedere da soli!" Partendo da un’impostazione politica assai differente, l’Anti-Capitalist Convergence, ha sostenuto un’analoga necessità. Dopo aver bollato come terrorista il proprio governo, l’organismo ha affermato che non è il momento di smobilitare, ma di collegare il movimento per la pace al movimento "no-global": "Bombardamenti, dittature create a comando, laboratori del sudore, debito del Terzo Mondo, fame e taglio ai servizi sociali sono tutte forme di violenza. Ci rifiutiamo di considerarle l’una staccata dall’altra. (...) dobbiamo gridare forte la nostra opposizione a questa guerra e al capitalismo portando la battaglia nelle scuole, nei posti di lavoro, nei quartieri e nelle strade."

Nelle scuole, nei posti di lavoro, nei quartieri e nelle strade non c’è chiaramente una simile volontà di lotta. Tuttavia non c’è neanche quel compattamento sciovinistico perseguito dalla Casa Bianca . Ne avevamo già avuto sentore vedendo che addirittura una parte degli eroi di ground zero, i vigili del fuoco, s’era scontrata con le istituzioni del potere statunitenste. Un altro sintomo è nelle parole di Sweeney, presidente dell’Afl-Cio, che pure ha appoggiato la guerra di Bush, nel presidio sindacale del giovedì: "l’economia mondiale è una Enron a scala globale che produce fame, miseria, disoccupazione in tutto il mondo e che non risparmia gli uomini, l’ambiente, il vivere sociale. (...) anche negli Usa si vivono le stesse contraddizioni… i poveri sono sempre più poveri… l’economia globale non lavora per i popoli… dobbiamo cambiare le leggi fatte dalle corporations e per le corporations e non si tratta di un obiettivo a breve termine… Siamo qui per rafforzare ed estendere lo spirito e la solidarietà nati a Seattle…"

Ci si può difendere da questo rullo compressore senza lottare anche contro la macchina bellica che esso utilizza in tutto il mondo per vincere le resistenze degli sfruttati? Alla convention dell’Afl-Cio di novembre Sweeney aveva detto: "In questo momento difficile stiamo con il presidente Bush ma, al tempo stesso, dobbiamo combatterlo più che mai per l’inaudita politica anti-operaia che sta conducendo". Si può contrastare la politica anti-operaia di Bush stando con lui nella guerra contro i popoli e gli immigrati islamici? L’una non è forse la continuazione e la condizione dell’altra? Si può lottare contro gli effetti sindacali, ambientali, culturali della globalizzazione capitalistica senza battersi contro uno dei suoi strumenti di affermazione, la guerra imperialista? Questa l’enorme contraddizione che stringe non solo la direzione del sindacato statunitense ma la massa dei lavoratori degli Stati Uniti. Quale ne sarà lo scioglimento dipende da un complesso di condizioni (interne e internazionali), tra cui la presenza o meno dell’azione nel "multi-etnico" proletariato statunitense di un’avanguardia di classe tesa, al contempo, alla ricostituzione di un’organizzazione politica internazionale dei lavoratori. Ancora non siamo a tanto, ma si comincia a intravvedere (proprio in queste minoranze educate al patriottismo e alla favola della democrazia) l’insieme di spinte che saranno chiamate a darsi da fare anche per essa.

Addio al patriottismo

"Credo che ci sia una luce che sorge dall’11 settembre, da tutta quell’oscurità. Una luce che credo noi americani possiamo seguire per la nostra salvezza. Quella luce è contenuta in una verità così semplice da essere ovvia, ma che gli americani non hanno mai preso a cuore: ‘Noi siamo parte del mondo.’ Non possiamo permettere ai nostri politici, ai generali, ai manager delle multinazionali, di fare i loro sporchi affari in giro per il mondo, mentre noi ci nascondiamo la verità su quanto effettivamente questi affari siano sporchi. Non possiamo più coprire i colpi di stato che preparano, le guerre che iniziano, le aziende sfruttatrici che dirigono. Per me, tutto questo significa dire addio al patriottismo.

"Un paradosso: l’11 settembre ha generato un’onda di patriottismo, un patriottismo che in molti casi è stato apertamente carico d’odio, razzista e xenofobo. Ma la vera lezione dell’11 settembre, che credo con il tempo impareremo, è che, se dobbiamo sopravvivere come un popolo libero, come persone rispettabili che onestamente rivendicano gli ideali per cui dicono di vivere, dobbiamo dire addio al patriottismo. Quel patriottismo non allevierà il nostro dolore, lo intensificherà. Non risolverà i nostri problemi, semplicemente li estenderà. Credo che non ci sia speranza per noi e per il mondo, se continuiamo ad abbracciare il patriottismo.

"Dobbiamo abbandonare il nostro ‘amore e sostegno leale o zelante per il proprio paese’, e trasferire quell’amore, quella lealtà e lo zelo, al mondo, e specialmente a quei popoli nel mondo che più hanno sofferto, perché noi americani potessimo vivere nell’opulenza. Questo tipo di affermazione potrà far arrabbiare molti, ma a questo punto dobbiamo prenderci il rischio, poiché questa non è una discussione accademica sui significati semantici. Questa è, allo stesso tempo, una battaglia per salvare noi stessi, e per salvare le vite delle popolazioni vulnerabili nel mondo."

Robert Jensen al congresso nazionale di Peace Action

Sabato (e, in parte, la domenica) il movimento è sceso in piazza in due distinte manifestazioni. La prima, più numerosa, nei pressi di Central Park, con ambientalisti, lavoratori, studenti e comunità immigrate; quasi al termine della giornata la polizia, a coronamento delle continue provocazioni, ha arrestato 36 persone e ancora di più ne ha arrestati il giorno successivo in alcuni presìdi. La seconda, organizzata dalla coalizione ANSWER, con circa 2.500 persone, s’è tenuta nei pressi del Waldorf Astoria, dove si svolgeva il Wef, in un ambiente militarizzato con gli attivisti rinchiusi in barriere a blocchi di 3-400 persone, senza possibilità di muoversi. Nonostante le evidenti intimidazioni della polizia, la manifestazione s’è protratta per tutta la giornata, con una forte tensione militante dei partecipanti e il tentativo di alcuni settori (soprattutto femminili) di congiungere le due manifestazioni contro la volontà della polizia di dividere i manifestanti in piccoli gruppi.

Nel corso di questa seconda iniziativa, dal palco sono stati indicati i veri terroristi nei partecipanti al Wef. Gli interventi hanno denunciato le aggressioni in atto (dalla Colombia alla Palestina, dall’Iraq all’Afghanistan), quelle imminenti, la politica di riarmo degli Usa e la scure dei licenziamenti e dei tagli al già striminzito stato sociale. Da sottolineare come in molti interventi di manifestanti "bianchi" è stato messo l’accento sulla necessità di battersi contro la politica razzista nei confronti degli immigrati, vista come uno strumento di divisione del più ampio fronte di lotta. In tutti, infine, si poteva cogliere la comprensione che quella attuale non è una situazione estemporanea, ma destinata a durare; una situazione che coinvolge "tutto il mondo" e che è provocata dal sistema sociale capitalistico.

Per ora, spesso, nel puntare il dito contro il capitalismo, prevale l’illusione della sua riformabilità, anche se, diversamente dall’esangue e complice riformismo della pletora dei burocrati, l’accento è messo sulla necessità di lottare conseguentemente per l’obiettivo prefissato che non su una sterile speranza di convincere i governanti ad "ascoltare la voce del popolo". Il che è una delle condizioni per andare oltre.

Infine, l’assemblea dell’ANSWER. Molti gli aspetti positivi. A partire da alcuni "dettagli" quali la massiccia presenza militante delle donne (che sono poi quelle che mandano avanti tutto!), il palco con la presenza dei rappresentanti delle diverse comunità (coreana, latino-americana, afro-americana, filippina, cubana, palestinese e islamica) e la totale assenza di qualsiasi forma di leaderismo. Il clima è stato di reale effervescenza e di continuo richiamo alla necessità di superare gli steccati che si vogliono frapporre tra comunità e fra lavoratori. Una denuncia e una mobilitazione contro il proprio imperialismo, che non sarà mai troppo presto quando metterà radici anche "qui" in Italia...