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Dopo le elezioni in Israele

 

Cambiamenti politici di rilievo, in terra di Palestina, anche sul versante israeliano.

Da un lato, con l’elezione di Peretz alla testa del partito laburista. Immigrato dal Marocco, presidente dell’Histadrut, esponente di Peace Now, Peretz ha raccolto il sentimento di stanchezza diffuso, a partire dal 2001, in una parte degli sfruttati israeliani verso la politica dei governi di Tel Aviv, incentrata sul binomio terrore contro la resistenza palestinese e ristrutturazione liberista dell’economia. Dall’altro lato, con la formazione, promossa dal falco Sharon, di un nuovo partito, Kadima, fautore della rinuncia (nell’immediato) al progetto-chiave dell’estrema destra israeliana: la formazione del "Grande Israele" e l’espulsione in massa (via repressione e massacri) del popolo palestinese ancora insediato in Cisgiordania e Gaza.

Le elezioni politiche di marzo hanno sanzionato il "nuovo corso" dei due partiti e condotto alla costituzione del governo di centro-sinistra, guidato da Olmert (con Peretz alla Difesa), da cui sono rimaste tagliate fuori le formazioni di estrema destra.

 

Contraddizioni sociali più acute

 

Come si è arrivati a questo cambiamento nella politica ufficiale israeliana?

La seconda Intifadah e i prezzi che essa ha fatto pagare all’economia e alla società israeliane, hanno mostrato alla popolazione ebrea d’Israele non sfruttatrice che il disegno di un’annessione strisciante dei territori occupati e di uno "strisciante genocidio" dei palestinesi non può essere realizzato a costo zero. Né in termini di vite umane, vista la capacità del popolo palestinese di resistere e di portare la lotta armata dentro gli stessi confini israeliani. Né in termini di benessere economico, visti i pesanti effetti sui lavoratori d’Israele della ristrutturazione dell’economia nazionale, richiesta tanto dalla conduzione della guerra contro i palestinesi quanto dalla serrata concorrenza che le potenze imperialiste e i capitalismi emergenti stanno facendo in Medio Oriente ai capitali israeliani nei settori da sempre loro riserva di caccia (armamenti, hi-tech, chimica-farmaceutica). Il blocco dei salari, l’aumento dell’età di pensionamento a 67 anni, i licenziamenti connessi alle privatizzazioni, i tagli al bilancio statale gravato da una spesa militare esorbitante (le forze armate israeliane contano 600mila soldati!), il supersfruttamento della manodopera (ebrea o non ebrea) arrivata dall’Europa dell’Est e dall’Asia, hanno provocato una perdita del potere di acquisto del 30%, l’impennata del tasso di disoccupazione al 10% (fatto sconosciuto nella storia d’Israele), lo scivolamento del 20% delle famiglie e del 30% dei bambini sotto la soglia di povertà.

Davanti a queste conseguenze, una parte della popolazione lavoratrice ebrea ha puntato i piedi. Con una serie di scioperi a catena, anche generali, contro i licenziamenti e l’austerità economica tra il 2003 e il 2005. Con il rifiuto di piccoli gruppi di militari di partecipare alle operazioni repressive a Gaza e in Cisgiordania. Con l’avvolgimento della vita sociale israeliana in un’atmosfera di cupa depressione (il 20% degli israeliani adulti confessa ormai che vorrebbe vivere in un altro paese). Con la riluttanza a sostenere in modo militante la soluzione di forza per una nuova Nabka auspicata inizialmente dal duo Sharon-Peres. Con il rendere manifesta l’aspirazione ad una qualche forma di pacifica convivenza con i palestinesi e al riequilibrio della vita del paese nel senso di una maggiore "giustizia sociale".

 

Un governo-ponte

 

La nascita del governo Olmert-Peretz risponde, in certa misura, a questo cambiamento di "umori" degli sfruttati di Israele (due milioni e mezzo, un terzo dei quali operai) prospettando loro una via di uscita dall’impasse del presente imperniata sul rilancio del capitalismo israeliano attraverso una sua maggiore integrazione con quello dell’area circostante e su uno "scambio" (assai diseguale) con i palestinesi: definitivo consolidamento del muro ed espropriazione di altre terre (le più fertili) della Cisgiordania contro l’evacuazione di un certo numero colonie (le più isolate e le meno redditizie) della stessa area. A molti lavoratori questo appare come un buon programma "di compromesso" che può migliorare la propria condizione materiale e costituire un inizio, almeno, di uscita dallo stato di guerra permanente. E’ davvero così?

Ne dubitiamo assai. "Le nuove controverse frontiere fissate da Tel Aviv, ulteriormente ampliate rispetto alla Linea Verde, non porteranno pace o sicurezza", ha denunciato giustamente Robert Fisk (Indipendent, 2 aprile). Non possono portarla perché, come la stessa vittoria elettorale di Hamas comprova, i palestinesi sono stanchi di subire soprusi e fare concessioni. Del pari, la possibilità di un rilancio dell’accumulazione capitalistica che vada a beneficio di tutte le classi sociali, come accaduto nei decenni del dopoguerra, appare irrealistica, tanto quanto lo è l’idea di Peretz di poter "sganciare" l’economia israeliana dall’incalzante competizione mondiale: "Nel XXI secolo nessuna moderna economia può condursi indipendentemente da quello che accade nel mondo dove le forze prevalenti sono la globalizzazione, la competizione e la mobilità dei mezzi di produzione", ammonisce il quotidiano liberale Haaretz, 11 novembre 2005.

A prescindere dalle intenzioni di Olmert-Peretz, il conseguimento effettivo degli obiettivi di rafforzamento dello stato israeliano e della sua economia stabiliti dal nuovo governo richiederà non una minore, ma una maggiore esposizione internazionale, anche in economia e non solo in politica, e la continuazione, non l’inversione duratura, della politica economica à la Netanyahu. Per dare ossigeno ad un’economia in panne, per raffreddare un conflitto sociale che minacciava di farsi sorprendentemente caldo, per meglio preparare l’irregimentazione a sostegno del "Grande Israele" della parte della popolazione ebrea che al momento non è disponibile a questo passo, la borghesia israeliana più lungimirante ha ritenuto utile allentare un po’ la morsa sui lavoratori e rinunciare, per ora, alle rappresaglie militari più estreme contro il governo di Hamas. Ma la mai doma resistenza dei palestinesi, i futuri passaggi bellici contro l’Iran, la spietata concorrenza internazionale da parte dei "grandi protettori" di un tempo (e di oggi) imporranno prima di quanto si possa immaginare una nuova, decisa virata a destra, per la conduzione della quale sono in via di costituzione le forze politiche corrispondenti. Sta qui l’altro dato rivelato dai risultati elettorali di marzo.

 

Avanza una nuova destra…

 

Se il partito di Netanyahu (la vecchia destra del Likud) non ha incassato il successo aspettato, Beiteinu Israel ha registrato invece un consistente balzo in avanti (un decimo circa dei votanti). Con il suo programma di espulsione totale dei palestinesi, il partito di Avigdor Lieberman è la punta di una galassia composita in via di strutturazione, che ha un peso nella vita sociale e politica ben superiore a quello strettamente numerico. Esso ha la sua falange (organizzata anche militarmente) tra i coloni impiantati in Cisgiordania (giunti ad essere nel 2005 ben 250mila) e nei vertici delle forze armate, che da alcuni mesi si sta congiungendo con le posizioni messianiche razziste delle correnti, finora piuttosto isolate, che propagandano la ricostruzione del tempio sulla spianata delle Moschee e l’instaurazione (al posto della "corrotta democrazia israeliana") di una monarchia di diritto divino. Per intanto, dopo una pausa di 1600 anni, il 13 ottobre 2004 è stato reinsediato il Sinedrio ("una data storica" per la radio dei coloni Canale7), che da allora si riunisce regolarmente per esprimere il punto di vista della "legge mosaica" sulle più spinose questioni interne e internazionali...

Purtroppo una parte non inconsistente del proletariato ebreo, anche di recente immigrazione dalla Russia e dai paesi dell’Europa orientale, che sente l’inconsistenza delle mezze soluzioni quali sono quelle portate avanti dal nuovo governo, è attratta dalle formazioni di estrema destra e propende per forzare la mano sin da subito in questa direzione. Questa fascia di sfruttati si aspetta di poter trovare una via d’uscita dalla morsa economica e sociale che crescentemente la stringe, nell’occupazione dello "spazio vitale" oggi abitato dai palestinesi. Ciò da cui, viceversa, non ricaverebbe il benessere e la relativa tranquillità cui aspira, bensì soltanto una posizione da sfruttati comunque precari e per di più trasformati in mercenari della propria borghesia e dell’imperialismo.

 

…ma si riaffaccia anche una sinistra anti-sionista.

 

Uno sbocco inevitabile? Sì, per quanto riguarda la politica portata avanti da Israele e, pur con contrasti quanto a tempi e modalità, da Washington e dalle capitali europee. No, per quanto riguarda lo schieramento del proletariato ebreo a supporto di essa. Le lotte degli ultimi anni e la crescente stanchezza verso la guerra diffusa tra la gente comune lasciano intravvedere delle promettenti potenzialità. La cui messa a frutto richiede, però, l’enucleazione entro i confini d’Israele di una politica che operi verso e tra i proletari ebrei raggruppati entro entrambi gli schieramenti, che amplii le iniziative di lotta sindacali alla lotta contro il Muro e agli altri aspetti della politica di Olmert-Peretz verso i palestinesi, che leghi l’iniziativa anti-guerra a quella dei lavoratori sindacalizzati, che mostri come la "supremazia ebraica" e l’apartheid anti-palestinese sono una catena al collo per gli stessi sfruttati ebrei, che getti costantemente un ponte verso la resistenza palestinese, da appoggiare incondizionatamente e con cui intrecciare il massimo degli sforzi politici comuni per dare alla comune battaglia di liberazione la politica e l’organizzazione di cui hanno bisogno, quelle fondate sul comunismo internazionalistico.

Non si tratta di nostri sogni. Sono già in campo esponenti della sinistra e del movimento pacifista israeliano ed ebraico internazionale capaci di vedere come le aspirazioni alla pace e alla "giustizia sociale" non possono trovare realizzazione senza un profondo sommovimento politico e sociale in Palestina e nell’area circostante. "Il concetto stesso di stati etnicamente puri crea divisione ed è destinato a generare conflitto", ha scritto l’esponente del New Democracy World John Spritzler. "La cosiddetta soluzione dei «due popoli, due stati» è una trappola politica e concettuale, che impedisce al proletariato arabo ed ebraico di condividere interessi e valori", e che, ci permettiamo di aggiungere, entro i rapporti statuali e sociali esistenti può significare solo quello che vediamo: uno stato d’Israele che opprime i due popoli attraverso l’uso di uno di essi per schiacciare l’altro, per bantustanizzare l’altro in una farsa di stato nazionale e, in prospettiva, per cancellarlo dalla faccia della Terra. "La situazione nel Medioriente non può essere risolta all’interno di questa cornice, che non porta da nessuna parte, se non ad ulteriore odio e distruzione, ad un maggiore controllo da parte delle élites. La soluzione non è di creare un altro stato etnico, ma di togliere questo carattere a quelli già esistenti. (...) Sarà facile riuscire in questo? Ovviamente no. Alcune delle élites più potenti del mondo si valgono del conflitto continuo in Medioriente per mantenere i propri poteri. Stabilire una vera democrazia in Palestina richiederà l’unione di persone comuni per sconfiggere le élites israeliane, statunitensi e arabe. La vera democrazia avrà bisogno di una rivoluzione". Non diverso l’auspicio espresso da Israel Shamir, favorevole al ritorno dei palestinesi: "Questa fantasia di raccogliere in tutto il mondo gli ebrei si è frantumata contro la realtà. Finiamola con le illusioni. Facciamo sì che i figli e le figlie della Palestina ritornino e ricostruiscano Suba e Kakun, Jaffa e San Giovanni d’Acri. Invece di sacralizzare la Linea Verde, cancelliamola e viviamo insieme, i figli della Palestina, dei primi immigranti, del Marocco e della Russia." Ancora Israel Shamir, nel pieno dell’offensiva terroristica di Sharon della primavera 2002: "Il genocidio dei palestinesi non può essere dimenticato e causerà il genocidio degli ebrei. È questa la ragione per la quale penso che si dovrebbe abolire lo spettro sanguinoso di uno stato ebraico. Dopo tutto, la vera divisione non è fra arabi ed ebrei, ma fra sio-nazisti e il resto di noi. C’è un’urgente necessità di stabilire una nuova leadership legittimata da tutta la Palestina, che comprenda tutte le comunità religiose ed etniche della Palestina e che chiami i cittadini a prendere le armi contro il sanguinario dittatore Sharon." È solo portando avanti coerentemente questa prospettiva, e quindi trascendendola in senso internazionalista e non certo mettendosi nelle mani degli Olmert-Peretz, che si potrà porre fine per sempre alla tragedia in atto.

 

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