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Che Fare n.68 novembre dicembre 2007

Con Sarkozy la Francia

va ancora più a destra. E i suoi lavoratori?

Le elezioni non decidono nulla di realmente rilevante che non sia stato già deciso nelle "alte sfere", ma sono pur sempre un’utile cartina di tornasole degli umori politici di un paese. Questo vale anche per le recenti elezioni francesi, che ci pongono dinanzi a un dato di fatto (non solo francese) a tutta prima davvero strano, che riguarda molto da vicino l’Italia, poiché, per l’essenziale, il caso della Francia è anche quello dell’Italia e degli altri paesi europei.

Il dato di fatto alquanto strano è questo: negli ultimi anni la Francia ha visto in campo una serie di movimenti di lotta sindacali (dai ferrovieri al pubblico impiego), di mobilitazioni di grande ampiezza (come la lotta contro il Cpe) e perfino di rivolte (nelle banlieues) contro i tentativi compiuti sia dai governi socialisti che dai governi di destra di tradurre in francese il vangelo universale della globalizzazione capitalistica. Ebbene: dopo questa serie di scosse elettriche nel corpo della società francese e della classe lavoratrice d’Oltralpe, dobbiamo registrare uno spostamento a destra tanto della situazione politica nel suo complesso, che delle formazioni di sinistra, di quella moderata come di quella "estrema". E dobbiamo constatare che ancora una volta una massa imponente di operai e di lavoratori ha votato a destra. Come mai? e, soprattutto, c’è o non c’è una via d’uscita da questa, non proprio allegra, situazione?

Lo spettro del declino e la via alla "gloria" di Sarkozy

La prima e fondamentale ragione di questa "stranezza" è nel fattore che ha dominato le elezioni e che sovrasta come un grande e temibile spettro la vita sociale della Francia: il declino della nazione, dell’economia nazionale, del prestigio nazionale francese nel mondo. Nella Francia di oggi solo una piccola minoranza collocata nelle fasce alte della società crede che la sua nazione sia in progresso e guarda con fiducia al futuro, confortata da profitti e conti in banca in lievitazione. La convinzione di gran lunga maggioritaria è invece quella inversa, che è legata strettamente alla perdita del potere d’acquisto di salari e stipendi, e ancor prima all’instabilità e saltuarietà della occupazione. Le nuove generazioni avvertono con ansia di essere avviate ad un domani quanto mai incerto, peggiore di quello dei propri genitori. Per lo più identificano (senza sbagliare) nel processo di globalizzazione in atto la fonte primaria della propria insicurezza. La paura di ciò che (probabilmente) sarà si somma alla frustrazione per ciò che già è. In particolare negli strati più schiacciati del salariato: gli operai (tutt’oggi il 30% della forza-lavoro totale, tra i 6 e i 7 milioni), i giovani di estrazione operaia (il 40% dei ragazzi), i lavoratori stabilmente precari ed interinali (moltissime le donne), il grosso degli immigrati, specie di seconda e terza generazione. Per tutti costoro non vi è solo il peso delle rinunce materiali, l’intensità ossessiva di un lavoro estraniante (se c’è) capace anche di condurti al suicidio (vedi Peugeot), il dover attraversare ogni sacrosanto giorno la giungla di un mercato del lavoro selvaggiamente deregolato; vi è la percezione, asprissima da tollerare, di una perdita di considerazione sociale, di una svalorizzazione del lavoro operaio, di tutto il lavoro salariato.

Buon allievo di Le Pen, Sarkozy ha cercato di intercettare con abilità sentimenti affioranti e paure profonde di questa variegata massa di lavoratori. Un’operazione non proprio elementare, poiché si tratta di un uomo e di un partito, l’Ump, araldi del neo-liberismo e notoriamente legati a triplo filo per comunanza di ideologia, di interessi e di personali frequentazioni, alla grande finanza, alla grande impresa privata e di stato e ai ceti medi accumulativi, cui hanno promesso sgravi fiscali, l’archiviazione delle 35 ore e nuove sforbiciate alle spese "assistenziali" e ai regimi pensionistici "speciali" dei salariati. E tuttavia per molti versi la sua è stata una campagna non casualmente protesa verso i proletari comuni, o almeno: anche verso di loro. Tanto nei contenuti come negli atti simbolici (le ricorrenti foto con operai, a iniziare da quelli di Airbus, minacciati di licenziamento e da lui rassicurati). Al centro della sua proposta rivolta "a tutti i francesi" vi è stato e vi è il rilancio della Francia, "nazione grande, bella, antica", cui dare nuova capacità competitiva, "nuovo onore", nuovo "orgoglio", un nuovo, ritrovato ruolo economico, politico e militare di prima fila nel mondo. E all’interno di questo rilancio della nazione bandito con un lirismo che fa tornar in mente i peana di un Maurras alla "Déesse France", un posto tutto speciale, ha garantito il neo-presidente, spetterà al lavoro. "Il lavoro libera l’individuo, il lavoro è un fattore di liberazione". E al lavoro va perciò ridata dignità, valore, merito ("i meriti di coloro che si alzano presto la mattina e riconoscono il valore del lavoro"), fierezza di sé. Al lavoro va poi riconosciuto il diritto ad una maggiore remunerazione come premio per un maggior impegno ("lavorare di più per guadagnare di più"). Nel quadro, è qui che il cerchio si chiude, di una ritrovata "identità nazionale", da difendere con "pugno fermo ma umano" dalle minacce costituite dall’immigrazione incontrollata, dal multiculturalismo e dal disordine urbano - tre modi per indicare lo stesso nemico: chi viene da fuori, gli immigrati, o chi "si mette" fuori dal consesso "civile", gli emarginati, spinti in realtà alla delinquenza di strada o all’abbandono da quella stessa società che li biasima e li declassifica.

Con una simile propaganda Sarkozy è riuscito a sottrarre a Le Pen parte del suo elettorato popolare, benché il Front national abbia tenuto, e come!, mantenendosi intorno al 20%, proprio nelle aree più densamente proletarie, nelle zone semi-urbane e in quelle rurali "profonde", dove stanno ritirandosi ad abitare, a causa dei costi esorbitanti delle città, le fasce più in difficoltà della classe lavoratrice, nonché nei dipartimenti del Nord Est industriale squassati dai processi di delocalizzazione (Aisne, Vosges, Haute-Marne, Moselle, etc.) (1). Comunque, l’operazione di maggiore rilievo compiuta da Sarkozy non è stato il "furto" o lo sdoganamento dei voti lepenisti, bensì l’ulteriore lepenizzazione della politica di stato - seppur purgata dai tratti estremi più ardimentosi, borghesissimi e reazionari s’intende, della politica del vecchio Le Pen, quali la proposta "anti-liberista" di chiudere a doppia mandata l’economia francese nei confronti del mercato mondiale o la possibile alleanza "anti-mondialista", ovvero anti-americana, tra questa Francia chiusa a riccio in sé stessa e il mondo islamico -. La Francia di Sarkozy, infatti, si avvia ad essere più che mai una nazione "legge ed ordine" (repubblicano autoritario, ovviamente, non fascista). E’ pronta ad accollare al ’68, e cioè al conflitto di classe, e ai "chiassosi" sindacalisti, che pure il conflitto di classe si sono specializzati a depotenziarlo, la colpa di tutte le contraddizioni e le disfunzioni sociali. Vuole una disciplina esemplare nelle scuole, nelle città, nelle banlieues (i luoghi della canaille…). Si prepara ad indurire la vita nelle carceri e a raddoppiare le pene per i piccoli recidivi per mano della odiosa Condoleeza Rice neo-gallica. Pur se si degna di elargire qualche incarico di prestigio a un’élite di immigrati ultra-francesizzati, questa Francia si riconosce nella "preferenza nazionale" ai francesi di sangue puro, cardine n. 1 da sempre della politica di Le Pen. Ribattezza, con uno sfacciato rilancio dell’assimilazionismo, il ministero per la immigrazione ministero dell’identità nazionale. Introduce il test del dna per gli immigrati che vogliono ricongiungersi ai loro cari. Cancella l’equivoco della Francia "terra d’asilo". E rimosso ogni rossore per il suo passato coloniale, si ripropone come regista di una nuova politica di sviluppo per l’Africa, dipinta ancora una volta da Sarkozy come immobile, animalesca, bambina, perciò da istruire (giusta la demagogia colonialista à la Sarraut) sulla mise en valeur delle proprie ricchezze (2).

Questa Francia promette alla propria classe lavoratrice (manuale e "intellettuale") che un nuovo inizio, una nuova grandeur dispensatrice di benessere per tutti, e dunque anche per i lavoratori, è possibile, a condizione di alzarsi presto la mattina, sgobbare, sgobbare, ancora sgobbare (tutto qui l’"onore" e il "valore" del lavoro: nel produrre profitti senza mai risparmiarsi), e serrare le fila in unità d’intenti con i propri sfruttatori di stirpe gallica (l’ennesima Union sacrée!) contro i perfidi avversari, interni ed esterni, vicini e lontani, della nazione. Solo per questa via la France éternelle, chiamata dal destino a svolgere nel mondo un’insostituibile funzione civilizzatrice, potrà uscire dal grigiore di un declino incombente e ritrovare la gloria che si addice a lei e a tutti i suoi figli, anche i più "umili".

La subalternità di S. Royal  e dei socialisti

A questa prospettiva di aggressivo nazionalismo imperialistico condito con un po’ di "laburismo", che non disdegna di citare Jaurès e L. Blum, la Royal, il Partito socialista, gli intellettuali stretti a coorte intorno a lei a presidio del "meno peggio", non hanno opposto alcunché di minimamente alternativo. Né potevano. Come ha detto Jerome Vidal (3), in Francia la "lepenizzazione degli spiriti", della società nel suo insieme, è avvenuta, nel secondo dopoguerra, con il concorso attivo della sinistra "socialista" e "comunista", un tempo magnifica avanguardia del movimento proletario internazionale, e da un buon secolo, invece, specie nel dopoguerra seguito a Yalta, seconda a nessuno in fatto di nazionalismo (4). Non c’è da meravigliarsi, dunque, se la Royal ha girato la Francia inneggiando alla patria e all’identità nazionale, chiudendo i suoi comizi sulle note della Marsigliese. Se anche lei si è arruolata nella difesa della legislazione sul velo voluta da Chirac e nell’attacco ai suoi critici, i terribili "islamo-gauchistes" (!). O se ha cavalcato l’onda securitaria, assumendo posture conservatrici in materia di ordine pubblico e di relazioni familiari.

Come per Sarkozy, anche per la Royal il pericolo supremo da sventare è quello di una divisione e di uno slabbramento della società francese per effetto della galoppante polarizzazione sociale. E le sue ricette per la coesione sociale nazionale non differiscono poi gran che da quelle sarkoziane. Certo, nei suoi discorsi pubblici non sono mancati accenni rassicuranti, vaghi peraltro, sul mantenimento dello "stato sociale", volti soprattutto a consolidare il consenso nella massa dei pubblici impiegati. Ma nei casi in cui la sua politica sociale è stata un po’ meno evanescente, è apparsa un impasto tra il tradizionale conservatorismo "compassionevole" di stampo democristiano verso i più "sfortunati" e i più "deboli" e un blando liberalismo sociale (non totalmente rinnegati, dopotutto, neppure dalla destra). La sua apologia del lavoro proprio nell’era della sua precarizzazione strutturale e del massimo svuotamento del suo contenuto non è stata meno oscena di quella di Sarkozy. Incoronata dai magnati dell’industria della comunicazione (e della finanza "progressista") come la più naturale "antagonista" di Sarkozy un sacco di tempo prima di essere "scelta" dagli iscritti del suo partito in una consultazione-farsa, madame Royal ha fatto del suo meglio, nonostante il fallito accordo elettorale con Bayrou, per dislocare il socialismo francese oltre la socialdemocrazia a ridosso, se non proprio all’interno, del campo centrista. Poi, ad elezioni concluse, ci hanno pensato "i Gracchi", ossia i mitterandiani di lungo corso Jospin, Rocard e Bérégovoy a delineare gli ulteriori passi di modernizzazione che la sinistra francese "deve" compiere, rivendicandone, è una première, la collocazione ideologica all’interno della famiglia liberale - "La sinistra moderna è liberale […], e rifiuta di cedere alla destra questa bella parola nata a sinistra" -, e prospettando il superamento del servizio pubblico – "numerosi settori dei servizi pubblici possono essere affidati a gestori privati, sotto controllo pubblico" (5). Insomma, la distanza tra i due campi "alternativi" della destra e della sinistra non è mai stata così ridotta. Ed è ben per questo che Sarkozy non ci ha messo nulla per strappare a questo degeneratissimo "socialismo" esponenti di primo piano per il suo governo (tra cui il fanatico crociato della guerra anti-islamica B. Kouchner) o per una istituzione-chiave della globalizzazione finanziaria neo-liberista quale il Fmi (il tecnocrate Strauss-Kahn).

La débâcle dell’estrema sinistra

È alla portavoce di questo "socialismo" liberale, anti-socialista e anti-comunista in radice, che l’estrema sinistra "operaista", "comunista", "altermondialista", con la sola eccezione formale della Lcr, ha fatto da portatrice d’acqua con il suo "voto utile" al secondo turno già promesso al primo turno, firmando così il suo accodamento "tattico" (ogni tattica, però, ha dietro di sé una strategia, esplicita o implicita che sia) alla deriva liberal-democratica della sinistra maggioritaria. Il naufragio di questa estrema sinistra non è stato tanto nei suoi numeri elettorali, ridottisi di 3-4 punti rispetto al 2002, una diminuzione dovuta quasi per intero alla perdita di voti a Lutte ouvrière, la sola organizzazione dell’estrema sinistra con un certo radicamento operaio, crollata dal 5,7% del 2002 all’1,3% di aprile 2007. Non è stato tanto nella frammentazione, dovuta peraltro a ragioni essenzialmente elettoralistiche, di ricercata visibilità istituzionale. Il suo naufragio è stato nella sua più totale incapacità ad affrontare in un’ottica di classe i nodi politici che sono davanti alla massa dei lavoratori, ad essere ai loro occhi un reale punto di riferimento antagonista, anti-capitalista.

Non vogliamo certo insegnare qui alla Laguiller o a Besancenot come si sarebbe potuto prendere un maggior numero di voti. Essi hanno dimostrato, la prima negli anni passati e il secondo di recente, di sapersela sbrigare bene all’interno delle regole stabilite per la "partecipazione al dibattito politico" elettorale. No, il nostro terreno non è quello dei giochini e dei rituali elettorali tra finti "antagonisti" che si contendono fino allo spasimo il voto-delega dei singoli cittadini nel nome di programmi spacciati per "alternativi", ma sono uniti nell’essenziale, cioè nell’accettazione, con o senza un po’ di mal di pancia, del capitalismo, della proprietà privata dei mezzi di produzione, della divisione in classi della società e – nel caso francese – della V Repubblica, cioè di un potere di classe capitalistico che si fonda sulla estraniazione della massa dei lavoratori dalle decisioni politiche, sulla divisione antagonistica tra dominanti e dominati. Il nostro terreno è un altro. È il terreno della realtà, di una globalizzazione capitalista imperialista che sta inasprendo fino al parossismo la competizione inter-capitalistica e lo sfruttamento dei lavoratori; che sta mettendo in concorrenza diretta, come mai era accaduto prima, i proletari del Nord e del Sud del mondo – è da qui che nascono i disagi e i tormenti dei lavoratori francesi, e non solo loro. E’ il terreno delle guerre scatenate dall’Occidente imperialista o in preparazione (Iran) contro i popoli "canaglia" arabo-islamici, dei disastri ecologici ed umani prodotti a nastro da un capitalismo più che mai saccheggiatore della natura e violatore dei bisogni umani. Il nostro è il terreno delle resistenze proletarie e popolari, disarmate e armate, a questo corso del capitalismo mondiale, che evocano la rinascita dalle proprie ceneri dell’araba fenice della nostra epoca: la rivoluzione sociale. Ciò che contestiamo a tutti i comprimari di questa "gauche plurielle" è di aver disertato questo terreno, non soltanto il terreno della rivoluzione, è scontato, ma perfino il terreno della realtà, finendo per essere, tra i competitori per l’Eliseo, i più illusionisti di tutti.

Infatti, al di là di singole affermazioni, di fugaci accenni, di sparse allusioni ad un socialismo non meglio definito, l’ottica dei loro "discorsi" (ci riferiamo qui a tutte le formazioni e i candidati a sinistra del Partito socialista inclusi i resti del Pcf, e lo facciamo prescindendo dalle differenze specifiche tra di essi) è stata "strettamente nazionale", interamente "franco-francese" (6), quasi che la Francia fosse, potesse essere un’isola in un mondo che viceversa non è mai stato altrettanto interdipendente e unito (in senso e al modo capitalistico). Essi hanno riproposto così, ancora una volta, quel sogno al fondo nazionalista della "eccezione francese", che è stato un elemento di debolezza delle lotte degli ultimi anni, andando del tutto in controsenso rispetto alla necessità vitale dei lavoratori della Francia di uscire dal recinto ideologico, "sentimentale" e organizzativo della "propria" nazione per cominciare a coordinare le proprie risposte di lotta con i proletari degli altri paesi europei, dell’Est e del Sud del mondo. Il clou della proposta politica "franco-francese" delle organizzazioni della estrema sinistra è stato quello, neo-keynesiano o socialdemocratico, di una redistribuzione degli utili prodotti dal buon andamento dell’economia sì da migliorare la condizione dei lavoratori e, insieme, alimentare il ciclo positivo invece di strozzarlo con "irrazionali" nuovi sacrifici. Anche in questo caso sul presupposto, del tutto irrealistico, di poter conservare in vita un passato "keynesiano" definitivamente tramontato, e per giunta senza neppure prospettare un vero e proprio piano di azione, di lotte organizzate per conseguire un simile obiettivo.

Molto sottotono, a dir poco, è stata questa sinistra nel suo insieme anche nella denuncia dello sciovinismo sarkoziano, lepenista e royalista e dei suoi tratti falsamente "laburisti"; nella denuncia del trattamento riservato alle popolazioni immigrate (del resto, si tratta di raggruppamenti che non hanno svolto nessun serio lavoro organico in questa direzione, e che furono del tutto tagliati fuori dalla rivolta delle banlieues verso cui rimasero freddini); nella denuncia del ruolo imperialista della Francia in Afghanistan, in Libano, in Algeria, in Africa, etc. e del ruolo di punta che da tempo Sarkozy intende far assumere a Parigi nella futura guerra all’Iran; nonché nella denuncia dell’ipocrisia del neo-presidente circa una Francia che "sarà al fianco degli oppressi del mondo" (!) e "non abbandonerà le donne condannate a portare il burqa, né quelle che non hanno la libertà" (!). Su tutti questi temi cruciali per l’autonomia della classe lavoratrice dalla classe sfruttatrice e dai suoi partiti e per l’unità tra i proletari francesi d.o.c. e i proletari immigrati, la "estrema sinistra" francese ha osservato un quasi-silenzio o ha messo il silenziatore, salvo la trita e ritrita manfrina liberal-democratica sulla tolleranza, il pluralismo, il multiculturalismo, etc. Ciò, sia durante che dopo le elezioni, quando la Lcr ha lanciato un appello per la costituzione di un "nuovo partito anticapitalista", assegnando ad esso come uno degli impegni prioritari la "presentazione, nel maggior numero possibile di città, di liste anti-capitaliste totalmente indipendenti dal Partito socialista". Ma non è certo per questa via, ancora una volta organizzativistica, immediatista ed istituzionale, che i lavoratori francesi potranno uscire dal loro attuale stato di sbandamento, di divisione, di irrilevanza politica. E come allora?

Una via d’uscita c’è!

Il caso della Francia è anche, per l’essenziale, quello dell’Italia (anche qui nel Nord industrializzato la destra prende più voti proletari della sinistra) e di altri paesi europei. Non mancano conflitti periodici e settoriali, anche accesi e di ampio raggio; non manca una sorda resistenza in specie di settori operai; è addirittura amplissimo il malcontento anche nelle nuove generazioni forgiate dall’individualismo di mercato; ma è assente una riconoscibile prospettiva di classe, un programma di classe, e un’organizzazione comunista che incarni l’una e l’altro. Sarà terribilmente difficile, e non breve, uscire da questa situazione che viene da molto lontano. Non è certo da oggi che il proletariato europeo è stato (e si è) "nazionalizzato" via stalinismo, via socialdemocrazia, via liberaldemocrazia e, ora, per mano di un aggressivo populismo à la Bossi, Le Pen, Haider, Blocher, e quant’altri. E non è da oggi che il proletariato europeo, sulla base della esperienza fatta in particolare nei "trenta gloriosi" (1945-‘75), si è intimamente imbevuto di riformismo convincendosi di poter accrescere i suoi consumi, le sue garanzie, i suoi diritti all’interno del capitalismo. Convinzione che gli ha fatto e ancora gli fa avvertire addirittura come un pericolo l’uscire da questi confini per "rincorrere sogni" di "altri mondi possibili" che poi, vedi i paesi del "socialismo reale", si afflosciano drammaticamente su sé stessi con cumuli di rovine sociali.

L’offensiva neo-liberista dell’ultimo trentennio ha iniziato a scuotere queste consolidate certezze. Ma l’avvento di una concorrenza compiutamente mondializzata sul mercato del lavoro ha messo i lavoratori europei, per la prima volta nella loro storia – questo è davvero un passaggio epocale – in una posizione difensiva nuova, con una sensazione epidermica di nuovi, maggiori rischi in agguato da cui guardarsi attentamente. Ed è proprio questo timore di un futuro ancora peggiore del presente che da anni sta frenando dall’interno i movimenti di lotta che – in Francia come altrove - è come se si auto-impedissero di superare una certa soglia, avendo introiettato (contingentemente, per quanto si tratti di una "contingenza" storica lunga quasi un secolo) la non superabilità del capitalismo e avvertendo la propria debolezza davanti ad un avversario di classe quanto mai arrogante e sicuro delle proprie ragioni. Ma questa introiezione e questa auto-limitazione (di cui abbiamo in questi giorni una prova anche in Italia con il sì maggioritario alla intesa del 23 luglio) non potranno durare in eterno. Né in Francia, né altrove. E’ proprio la "globalizzazione neo-liberista" che ce lo dice.

In Francia la luna di miele tra Sarkozy e un’opinione pubblica perfino più ampia, ad oggi, di quella composta dai suoi elettori è destinata a finire piuttosto presto. Dopo aver incrociato i guanti anche col banchiere centrale europeo Trichet onde essere autorizzato a spendere in deficit più del "lecito" ("siamo vicini al crac", ha detto il primo ministro Fillon), Sarkozy dovrà comunque manomettere i sistemi di pensione "speciali", imporre i 40 anni di contributi pensionistici per tutti, dimagrire gli organici pubblici (reintegrando solo il 50% dei pensionati), introdurre nuove misure anti-sciopero nei servizi, varare il contratto unico (che piace a Veltroni) con facilitazioni per i licenziamenti, dare corso concretamente all’inasprimento dei controlli e della repressione sugli immigrati, affiancare alla detassazione degli straordinari e dei profitti reinvestiti altre misure per attrarre, come si propone, maggiori investimenti esteri, favorire il processo di riorganizzazione centralizzatrice dell’industria francese iniziato con la fusione Gdf-Suez gravido di costi per i lavoratori. Lo farà con gradualità, è probabile, cercando di non entrare in rotta di collisione con l’intero mondo del lavoro salariato, prospettando magari qualche forma di "integrazione" aziendale dei salari, ma deve farlo se vuol dare una chance al rilancio concorrenziale della Francia, e se non vuole ridicolizzare da sé l’immagine decisionista che si è fatta cucire addosso. Un analogo percorso a tappe forzate dovrà compiere in politica estera, dove è chiaro il suo intento di sostituire la Gran Bretagna, per lo meno nelle vicende iraniane e turche, come miglior partner politico-militare di Washington, magari reintegrando a pieno la Francia nella Nato, perché solo con questo rilancio internazionale della "potenza francese" per mezzo di nuove guerre ai paesi renitenti del Sud del mondo (come già avvenuto in Costa d’Avorio) gli sarà possibile alimentare in concreto il suo "laburismo", che in caso contrario si trasformerà in un boomerang.

E’ anzitutto proprio sull’oggettività e l’inevitabilità dell’inasprimento dell’antagonismo di classe dentro e fuori i confini della Francia che facciamo affidamento per un ritorno in campo comme il faut del proletariato, vecchie e nuove generazioni insieme, con queste ultime in prima fila, autoctoni e immigrati, con questi ultimi finalmente fuori dai ghetti in cui stiamo rinchiudendoli, garantiti (si fa per dire) e precari, lavoratori del "materiale" e dell’"immateriale" (che è materialità esso stesso), di un proletariato che sappia riscoprire, contro le mille sirene scioviniste che suonano a tutto spiano, la centralità e la vitalità dell’internazionalismo comunista. La nuova configurazione del salariato che sta nascendo da una socializzazione della condizione proletaria che non ha precedenti nella storia della società capitalistica, aiuterà questo processo di ricomposizione a cui oggi, ai superficiali, sembra essere di ostacolo, e darà una mano alla rottura dell’isolamento delle singole lotte. Ma ci vorrà tempo. Ci vorranno una serie di esperienze in cui la classe lavoratrice dovrà toccare con mano che non ha alcuna possibilità di risalire la china accettando la prospettiva sarkoziana della massima competitività aziendale e nazionale e della guerra, e che, al contrario, accodandosi ad essa, con Sarkozy o chi per lui, procurerà soltanto sacrifici e sventure a catena a sé e ad altri. Ci vorranno dei veri e propri salti di coscienza e di organizzazione della classe lavoratrice per consentire alle potenzialità delle lotte oggi frenate e represse dall’esterno e dall’interno di esse di realizzarsi. Ma sarebbe di un’incredibile ingenuità immaginare questo processo come un processo totalmente spontaneo, totalmente ed esclusivamente "dal basso". Comprendiamo bene, e condividiamo, la reazione di rigetto che gruppi di compagni manifestano oggi in Francia verso l’organizzativismo che ha afflitto e affligge più che mai l’estrema sinistra francese, verso questo feticismo dell’organizzazione "rivoluzionaria" che è un surrogato impotente del mancato scioglimento di nodi teorici e politici. E però la "riappropriazione degli elementi fondamentali dell’impegno politico rivoluzionario" (di cui parlano i compagni di "Carré Rouge") esige un lavoro di bilancio, di analisi, di chiarificazione, di ricollegamento alla tradizione marxista autentica, di anticipazione degli scontri futuri, di indirizzo politico verso e dentro le lotte, che una piccola pattuglia di compagni (per ora non è possibile altro) deve accollarsi senza paura di prevaricare, svolgendo questo lavoro di partito, sul processo di auto-organizzazione dei lavoratori. Che di un tale lavoro ha un bisogno estremo.

Che Fare n.68 novembre dicembre 2007

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