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Dal Che Fare n.72 aprile - maggio 2010

I lavoratori sotto l’attacco delle direzioni aziendali e del governo

I lavoratori possono contare solo sulla propria lotta e sulla tessitura dell’unità delle loro fila

La preoccupazione dei lavoratori cresce. Ce ne sono tutte le ragioni. Non solo perché si sono moltiplicati i licenziamenti, si è ridotto il reddito dopo mesi e mesi di cassintegrazione e rischiano di scomparire, specie nel Mezzogiorno, poli industriali consolidati. Bensì anche, e soprattutto, per il futuro che si annuncia.

Le direzioni aziendali puntano a realizzare un salto di qualità nella precarizzazione del lavoro: facendo leva sulla disoccupazione e sui ricatti che essa induce sui lavoratori, le imprese intendono arrivare al lavoro saltuario di massa.

Il governo Berlusconi-Bossi-Fini sta cercando di oliare questo attacco. Esso è tutt’altro che inattivo o debole, come vuole la rappresentazione che ne fornisce la sinistra e la Cgil. Il tentativo di aggirare l’articolo 18 con la legge n. 1167 è solo uno degli interventi anti-proletari del governo. Di non minore portata altri provvedimenti, in cantiere o già approvati, passati sotto silenzio dall’informazione ufficiale. In che modo i lavoratori possono difendersi da questo attacco sui due fronti?

Per rispondere a questa domanda cruciale, non è superfluo tornare sul ruolo che sta svolgendo il governo Berlusconi nell’attuale fase politica. Altro che governo Robin Hood, come recita l’agiografia tremontiana! E altro che governo inattivo, come sostiene l’opposizione democratica e la direzione della Cgil! Non bastassero i provvedimenti del governo che abbiamo denunciato nel n. 71 del "che fare", altri se ne sono aggiunti negli ultimi mesi.

Dal governo Berlusconi altre randellate contro i lavoratori.

Alle misure sul mercato del lavoro analizzate a p. 5 sono da aggiungere due pesanti progetti annunciati di recente dallo stesso Berlusconi.

 Sul versante fiscale, il presidente del consiglio ha proposto di ridurre a due le aliquote fiscali, di aumentare la quota del prelievo fiscale gravante sul consumo e di accrescere le responsabilità delle istituzioni locali in attuazione della riforma federalista appena varata (1). Sul versante pensionistico, Berlusconi ha "auspicato" un nuovo allungamento dell’età pensionabile in aggiunta alla revisione al ribasso dei coefficienti già prevista dalle precedenti contro-riforme targate destra-"sinistra".

Per ora, i due provvedimenti sono stati sospesi, a causa delle elezioni e del timore di innescare la lotta dei proletari in un momento in cui il sindacato non è ancora del tutto smobilitato. Ed è proprio qui che si concentra il fuoco del governo: dare attuazione al modello delle relazioni contrattuali alla base dell’accordo del gennaio 2009, trasformare completamente il sindacato in struttura di servizi individuali all’utente-lavoratore. La firma separata del contratto dei metalmeccanici da parte di Cisl e Uil e la riforma governativa dei cosiddetti   "ammortizzatori sociali" (v. p. 5) ne sono altri tasselli.

Questo affondo è favorito dal "modello capitalistico" a cui il governo Berlusconi sta, ormai, acconciandosi: quello fondato sull’accettazione rassegnata del declino del ruolo dell’Italia nei settori industriali di punta, sulla trasformazione dell’Italia in paese-riviera e in paese di subappalto industriale delle potenze imperialiste più avanzate. Che sia questa la "filosofia" del governo, lo confessano i progetti del PdL di trasformare il polo industriale di Marghera in una nostrana Las Vegas, la proposta del ministro del turismo di creare in ogni hotel a cinque stelle un casinò per competere nelle attrazioni turistiche con la Francia, la Spagna e la Slovenia, la dichiarazione del presidente della Confindustria di cercare una risorsa per le imprese italiane nella crescita della percentuale del reddito proveniente dal turismo, la stessa riforma della scuola targata Gelmini.

Questo ripiegamento trascina con sé, oggettivamente, lo sfilacciamento delle fila del mondo del lavoro verso una condizione materiale e psicologica di estrema debolezza, qual è quella che Berlusconi intende suscitare tra i lavoratori. Verso questa condizione continua a remare, poi, l’azione politica  del governo per alimentare la concorrenza tra i lavoratori italiani e i lavoratori immigrati, e per scaricare contro questi ultimi il malessere  dei lavoratori italiani.

Questo arretramento dei lavoratori non è, però, affatto inesorabile.

Lo si può respingere.

L’"alternativa" di Fini, Montezemolo e Scalfari

Non certo mettendosi alla coda dell’ala della borghesia italiana in contrasto con Berlusconi e rappresentata da Fini, Casini, Montezemolo, Profumo, De Benedetti, ecc. La lotta dei lavoratori va condotta anche contro questa frazione della classe dominante italiana. Non perché il  progetto politico che essa porta avanti sia identico a quello berlusconiano, bensì perché anch’esso, come quello dell’attuale governo, richiede un sostanziale schiacciamento dei lavoratori.

Fini, Casini e il quotidiano la Repubblica esprimono le istanze del padronato italiano che non si è rassegnato al declino dell’Italia. Essi  percepiscono che questo declino affonda le sue radici nelle trasformazioni epocali vissute dal sistema capitalistico mondiale negli ultimi trent’anni e nello spostamento del baricentro di esso dall’Atlantico al Pacifico. Essi si rendono conto che la crisi economica in corso ha accentuato le difficoltà dell’imperialismo italiano, ha ridotto il raggio di azione delle sue esportazioni e ne ha accresciuto le difficoltà sui mercati asiatici più dinamici. L’ala "scalfariana"e finiana della classe dominante italiana non intende, tuttavia, subire passivamente il ridimensionamento indotto da questi cambiamenti.

Va bene il turismo, dicono Scalfari e, dietro di lui, Fini e Montezemolo. Ma non arretriamo dal terreno industriale, puntiamo anche sull’innovazione tecnologica per agganciare la domanda dei ceti medi dei paesi emergenti. A tal fine, cerchiamo di collegarci al "green new deal" di Obama ed evitiamo di appiattirci su Israele, come accaduto con la recente visita di Berlusconi a Tel Aviv. Questo orientamento richiede una politica industriale ben orchestrata dallo stato, la promozione della collaborazione tra le università e i distretti industriali sprovvisti (come invece accade per le grandi multinazionali) di centri di ricerca autonomi, il superamento del nanismo caratteristico delle imprese italiane.  Ciò richiede, a sua volta, la centralizzazione delle risorse finanziarie che il "sistema Italia" possiede polverizzate in una congerie di mani borghesi pidocchiose, la riduzione dell’evasione e dell’elusione fiscali, una politica di modernizzazione infrastrutturale che non può consistere nelle centrali nucleari e nel ponte di Messina, il freno degli appetiti meschini del sotto-bosco che funge da ponte tra l’esecutivo, le imprese e la società, l’inversione nel progressivo slittamento del Mezzogiorno a traffici non del tutto centralizzati al circuito del grande capitale italiano.

L’economista Baldassarri, vicino a Fini, ha recentemente dichiarato: "La Francia cresce più dell’Italia perché ha una pubblica amministrazione efficiente, mentre la Germania ha sempre puntato su ricerca, innovazione e tecnologia. Il vero problema dell’Italia è che nessun governo è riuscito a tagliare la spesa pubblica improduttiva: ci sono almeno 70 miliardi di euro di spesa, su un totale di 812, che sono collegati agli sprechi. Occorrerebbe un programma di 3-4 anni che tagli progressivamente queste voci e trasformi i soldi recuperati in meno tasse sulle famiglie, incentivi alla ricerca, maggiori investimenti infrastrutturali. Ma la verità politica è che c’è una convergenza di interessi trasversale che finora ha protetto questi sprechi" (la Repubblica, 15 marzo 2010).

L’operazione è, quindi, tutt’altro che limitata alla sfera della politica economica. Implica un terremoto negli equilibri sociali esistenti e un avvio della messa in riga dell’enorme massa dei ceti medi. In vista di questa prospettiva, la "frazione scalfariana" della classe dominante italiana cerca l’aiuto dei lavoratori, di quelli italiani e di quelli immigrati, contando sul loro malessere e sul disgusto che una fetta di lavoratori sta maturando per il degrado e gli "scandali" del sistema di potere berlusconiano.

Ma cosa riserva effettivamente ai lavoratori l’indirizzo politico di Fini, Casini e Scalfari? La riduzione della precarietà? Lo stop all’erosione delle tutele conquistate dai lavoratori in campo sanitario e previdenziale? L’allentamento del dispotismo esercitato sui lavoratori dalle direzioni aziendali?

 No.

L’era del lavoro saltuario di massa, l’era in cui i lavoratori devono essere a totale disposizione delle direzioni aziendali non nasce dalla meschinità del blocco di potere berlusconiano né dalla cattiva gestione della macchina capitalistica. Alla loro origine c’è una trasformazione epocale del sistema capitalistico sulla cui scia si muove (non può non muoversi) anche l’ala finiana e "scalfariana" della classe dominante italiana. Vediamo perché.

La mondializzazione capitalistica di fine XX secolo

Fino a trent’anni fa, i lavoratori d’Occidente detenevano quasi completamente il monopolio del lavoro industriale mondiale. Ciò dava loro un’enorme forza di contrattazione. Di fronte alla richiesta dei lavoratori di introdurre l’assistenza sanitaria, quella previdenziale, alcuni paletti a tutela della sicurezza degli operai nelle fabbriche, ecc., i capitalisti non potevano delocalizzare. Non vi erano i mezzi tecnologici per disperdere la produzione industriale e i trasporti a livello planetario mantenendone il controllo dai centri imperialisti. Non vi erano le condizioni sociali per introdurre l’industria a livello di massa nei paesi del Sud del mondo.

Per far girare la macchina economica e intascare i profitti che questa fa piovere nelle loro tasche, i capitalisti dovettero cedere alle istanze dei lavoratori. Lo poterono fare per la congiunzione di due favorevoli condizioni: da un lato, la possibilità di super-sfruttare i lavoratori del Sud del mondo e di saccheggiare le materie prime in non piccola quantità colà concentrate; dall’altro lato, il contemporaneo enorme aumento della produttività e dell’intensità del lavoro realizzato nelle fabbriche occidentali.

In questo percorso di miglioramento delle proprie condizioni (che durò decenni, richiese lotte grandiose e passò attraverso le due guerre mondiali e la crisi del 1929), i lavoratori riuscirono a cementare una stabile organizzazione collettiva di difesa, sindacale e politica, con i suoi punti di forza negli stabilimenti di decine di migliaia di persone.

Dagli anni ottanta le cose sono drasticamente cambiate. La produzione industriale si è, nel frattempo, mondializzata. Il mercato del lavoro si è mondializzato. Il capitale è progressivamente riuscito a svincolarsi dalla morsa costruita dal movimento dei lavoratori d’Occidente, diventata alla metà degli anni settanta insostenibile per la redditività delle imprese, anche per la parallela ascesa del prezzo delle materie prime che i popoli colonizzati erano riusciti ad imporre come frutto del loro incandescente risveglio nel secondo dopoguerra.

Come mostrano gli esempi, pur circoscritti, riportati nei riquadri, per i vertici finanziari che controllano e "pianificano" l’investimento industriale a scala planetaria, è diventato normale delocalizzare laddove i "costi di produzione" (e prima di tutto il costo del lavoro) sono più bassi e la competitività delle imprese può essere più avanzata. Oppure delocalizzare all’interno dello stesso Occidente, supersfruttando la presenza della forza-lavoro immigrata. Gli strumenti (finanziari e tecnologici) di gestione accentrata della produzione, dei trasporti e delle comunicazioni sviluppati negli ultimi decenni, permettono, inoltre, ai capitalisti di segmentare le fila proletarie anche attraverso la riduzione della dimensione delle singole unità produttive e l’esternalizzazione delle lavorazioni.

La difesa della competitività delle aziende non può che basarsi su queste tendenze. Ecco perché i lavoratori hanno interesse a lottare anche  contro l’alternativa scalfariana alla politica di Berlusconi: l’obiettivo di Fini, Casini, Caracciolo, ecc. di rilanciare l’imperialismo italiano ha  bisogno della compressione dei diritti dei lavoratori, dell’intensificazione dello sfruttamento, dell’aumento del meccanismo da cui è derivata l’erosione dei diritti dei lavoratori occidentali negli ultimi trent’anni: la concorrenza con i lavoratori degli altri continenti. Anche se il capitale italiano puntasse sulla fascia alta del mercato mondiale, sulle merci tecnologicamente avanzate e si agganciasse al "green new deal" di Obama, dovrebbe in ogni caso affrontare una concorrenza non meno accanita di quella incontrata nella fascia medio-bassa.

Ci deve far riflettere cosa sta comportando per gli stessi lavoratori del Canada e degli Usa il tentativo della Chrysler e della Fiat di lanciare dal Nord America l’auto ecologica, l’auto  del futuro. Ne abbiamo discusso nel n. 71 del "che fare" e non è un caso che, il 26 marzo 2010, in occasione dell’assemblea degli azionisti Fiat, Marchionne abbia additato ai lavoratori italiani preoccupati dei tagli occupazionali l’"esempio" dei lavoratori degli Usa e del Canada.

Una politica subalterna

Una coerente difesa degli interessi proletari dovrebbe denunciare lo scopo classista della politica dell’ala della borghesia italiana in contrasto con Berlusconi. Il partito democratico, Di Pietro e il resto della "sinistra istituzionale" sono invece subalterni ad essa. Ne accettano la condizione che il governo Berlusconi vada sostituito attraverso le elezioni, le manovre parlamentari, i ricatti di un settore della magistratura. Si guardano bene dall’incoraggiare l’opposizione di piazza al governo Berlusconi e la lotta dell’unica parte della società in grado di sorreggere tale opposizione, e di far cadere, in prospettiva, Berlusconi (come accaduto nel 1994): i lavoratori.

Sono indicative le dichiarazioni rilasciate da Bersani in occasione della manifestazione del partito democratico e del "popolo viola" del 13 marzo 2010. Lo stesso Di Pietro, che cerca di presentarsi con la veste dell’oppositore intransigente, ha più volte precisato che non è sulle manifestazioni e sulla lotta di piazza che va basata la lotta per cacciare il governo Berlusconi, ma sulle elezioni. Esattamente come recitarono, ognuno nella sua parte, Veltroni e Bertinotti tra il 2001 e le elezioni del 2006. Cosa cambiò allora? Che effetto ebbe quella politica? Ha predisposto il terreno a una reale difesa degli interessi dei lavoratori oppure ha agito in senso contrario?

Solo la lotta e l’organizzazione di un movimento di difesa generale possono erigere un argine contro l’attacco del governo Berlusconi,  mandarlo a casa in modo che l’esecutivo successivo, di centro-destra o di centro-sinistra che sia, freni la sua marcia contro i diritti e le tutele conquistate dai lavoratori nel XX secolo. Insistendo su questo punto cruciale, non intendiamo affermare che già oggi esista una disposizione d’animo dei lavoratori pronta alla mobilitazione e che basti uno squillo di tromba per superare lo stallo elettorale in cui l’opposizione democratica e scalfariana intende mantenere il malessere dei lavoratori. Purtroppo le cose non stanno così. Ma aver le idee chiare  su quale sia l’unica arma in mano ai lavoratori, permette di impostare un’azione capace di mettere in evidenza e contrastare le cause di fondo delle difficoltà incontrate dai lavoratori nella loro azione difensiva.

Il problema non è, tuttavia, solo nei mezzi. La "sinistra ufficiale" è subalterna all’ala "scalfariana" e finiana della classe dominante italiana anche negli scopi. Non è un caso che nel Lazio l’opposizione democratica presenti come candidato alle regionali Emma Bonino, la ex-radicale che si è fatta le ossa nelle battaglie contro l’articolo 18 dei lavoratori e nella preparazione dell’aggressione Nato alla "ex"-Jugoslavia.

Cullarsi nell’illusione che, per arginare l’affondo padronale e governativo, occorra sostenere l’indirizzo dell’ala anti-berlusconiana della classe dominante italiana, produce solo la prosecuzione dello sfilacciamento delle fila proletarie, l’aumento della concorrenza tra le varie sezioni della classe lavoratrice, la diffusione della "mentalità" berlusconiana tra le fila del mondo del lavoro, che il Don Rodrigo di Arcore vorrebbe trasformato in una plebe di straccioni, servitori contenti (e ringhiosi l’un contro l’altro) per l’osso gettato dal signorotto di turno.

Da questo tunnel si esce, si può uscire solo puntando ad unificare le vfila della classe lavoratrice mondiale. Un lavoratore immigrato di Porto Marghera ci ha detto: per evitare la corsa al ribasso tra i lavoratori dei vari paesi, in ogni paese dovrebbero essere riconosciute alcune tutele di base per i lavoratori, indipendentemente dalla nazionalità e dall’appartenenza religiosa. È proprio così. La conquista di questo avanzamento dipenderà solo dalla lotta dei lavoratori e dall’unità delle loro fila a livello internazionale. Lavorare per questa prospettiva significa, innanzitutto, difendere i livelli di organizzazione esistenti a livello locale, cogliere tutte le occasioni per gettare ponti e ricostituire a livello planetario quell'organizzazione collettiva dei lavoratori che, limitata nel XX secolo all’area in cui era presente la gran parte della produzione manifatturiera, aveva saputo arginare il dispotismo del capitale.

Una nuova leva di militanti proletari

Conosciamo bene le difficoltà che si incontrano su questa strada. Non solo la concorrenza spasmodica che contrappone i lavoratori, ne paralizza la resistenza e li spinge ad accettare i ricatti dei padroni. Non solo le distanze geografiche. Ma anche le illusioni che decenni e decenni di pace e prosperità hanno sedimentato tra i lavoratori occidentali. L’illusione social-sciovinista, che anche i partiti di "sinistra" e i sindacati rinfocolano, di poter risalire la china solo insieme al recupero di competitività delle proprie imprese e sulla pelle dei lavoratori del Sud e dell’Est del mondo. Questa illusione fa il paio con quella dei lavoratori dei paesi emergenti di poter continuare a migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro, come successo negli ultimi decenni, legandosi all’ascesa dei rispettivi capitali nazionali. A ben guardare, però, le due sezioni principali della classe proletaria mondiale hanno interesse a sottrarsi a questa direzione di marcia, che ha come unico esito quello della guerra planetaria tra le maggiori potenze capitalistiche per il controllo dei cinque continenti sulla pelle dei lavoratori stessi.

L’arrivo della crisi economica, i diseguali effetti di essa in Occidente e in Asia hanno aggiunto difficoltà a difficoltà. Nei paesi dell’Est europeo, ad esempio, è cresciuta sensibilmente la disoccupazione e ciò sta permettendo ai capitalisti dell’Europa occidentale di approfittarne, dopo aver dovuto subire negli anni 2000-2007 una ripresa delle lotte di difesa sindacale tra i lavoratori rumeni, ungheresi, cechi, polacchi, sloveni e delle altre repubbliche "ex"-jugoslave.

La crisi economica sta anche costringendo, però, i lavoratori ad impattare con il nodo della concorrenza mondializzata sul mercato del lavoro. Ad esempio, le difficoltà incontrate dai lavoratori di Termini Imerese indicano quanto sia vitale confrontarsi con questo gigantesco problema. Non esistono ancora le condizioni per affrontarlo con un’azione di massa. Può, tuttavia, germogliare una rete di lavoratori che nei cinque continenti lavori in questa direzione. Qui in Italia, questo lavoro richiede la denuncia e la lotta contro le azioni che il governo e i padroni portano avanti per rinfocolare la concorrenza tra i lavoratori, tra le quali particolarmente insidiose sono il federalismo, il razzismo, l’aziendalismo. Richiede che la lotta contro i licenziamenti, la precarietà e la crescente torchiatura nei posti di lavoro sia agganciata alla rivendicazione della riduzione di orario a parità di salario.

Questa rivendicazione non è un grimaldello con cui superare magicamente le difficoltà che si ergono di fronte alla lotta dei lavoratori. E, di certo, non si tratta di una rivendicazione facile da conquistare. Anzi, la storia dimostra che solo con una lotta rivoluzionaria e di massa contro il capitale e il suo stato si può giungere a un simile obiettivo. Non a caso le "otto ore" furono conquistate in Russia con la rivoluzione bolscevica del 1917 e in Occidente come sottoprodotto del tentato assalto al cielo del primo dopoguerra.

Sappiamo tutto ciò, e, proprio per questo, chiamiamo a lavorare sin da ora in tale prospettiva, l’unica in grado  di evitare che la necessaria lotta contro i licenziamenti e la chiusura degli stabilimenti possa trasformarsi in una guerra tra i lavoratori delle diverse nazioni, ognuno a difesa del proprio fortino assediato e contro il fortino altrui. Una battaglia realmente vincente contro i licenziamenti non può basarsi solo sulla richiesta di non trasferire il lavoro all’estero. Deve puntare a minare alla radice le condizioni che consentono alle imprese di mettere i lavoratori dei diversi paesi in reciproca concorrenza al ribasso. E ciò è possibile se si predispone il terreno alla battaglia per rivendicare l’innalzamento dei diritti per i lavoratori degli altri paesi e della contestuale (per "loro" e per "noi") riduzione netta della giornata lavorativa a parità di salario.

Non c’è solo, quindi, da rimettere in pista la lotta. C’è anche, in essa e per renderla possibile, da mettere in pista un indirizzo politico proletario. Questa azione politica richiede l’azione di un partito proletario. La frantumazione delle dimensioni delle imprese e lo spostamento frequente dei giovani lavoratori da un’impresa all’altra rendono ancor più pressante l’azione territoriale di ricomposizione delle fila proletarie che solo un’organizzazione politica può svolgere.

Al momento, non esistono le condizioni per la formazione di questo organo politico. All’ordine del giorno è, però, la formazione di organismi politici autonomi dal capitale, dallo stato borghese e dalle loro articolazioni di "sinistra", nei quali e attraverso i quali organizzare una coerente attività politica tra e verso i lavoratori, qualunque sia la loro appartenenza sindacale e la loro identità razziale, nazionale e religiosa. Parte integrante di questa attività è la conquista della teoria marxista rivoluzionaria, l’unica in grado di rendere intelligibile il caos verso cui sta scivolando il sistema capitalistico e la strada per uscirne: quella dell’"uscita" rivoluzionaria da questo sistema sociale verso il comunismo.

Noi cerchiamo di essere un nucleo di compagni che lavora in questa direzione. Con ciò non ci sottraiamo alle urgenze del momento, come sa chi conosce la nostra attività militante. Cerchiamo solo di fare fino in fondo la nostra parte per rendere feconde le iniziative di difesa suscitate da queste urgenze. Feconde, in primo luogo, nella genesi di una nuova leva di militanti proletari.

(1) Sulla riforma federalista varata dal governo Berlusconi-Bossi-Fini v. l’articolo "Leghista o democratico, il federalismo è un’arma dei padroni contro i lavoratori", pubblicato sul n. 70 del "che fare".

                                                                                           

Dal Che Fare n.72 aprile - maggio 2010

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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