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Che fare n.75 Dicembre 2011 - Marzo 2012

Sotto la guida dell’Anc, il Sudafrica entra nel Bric.

Quali prospettive per il riscatto sociale e razziale dei lavoratori di colore?

Nella primavera del 2011 il Sudafrica guidato dall’Anc è entrato ufficialmente a far parte dell’organismo che riunisce le più importanti nazioni "emergenti". Il BRIC (acronimo che deriva dalle iniziali di Brasile, Russia, India e Cina) è così diventato BRICS.

Quest’ingresso concorre a corrodere anche in Africa australe l’ordine capitalistico basato sul dominio degli Usa e delle potenze occidentali. Quest’ordine aveva subito un colpo profondo negli anni novanta del secolo scorso, quando era stato costretto ad accettare il crollo di un regime, quello dell’apartheid, garante degli interessi imperialisti in Sudafrica e nella regione. Gli Usa e le potenze capitalistiche europee cercarono di limitare i danni e di mantenere la presa attraverso la collaborazione con il nuovo governo a guida Anc. Sembravano esserci riusciti, grazie al mantenimento del potere economico nelle mani dell’élite bianca e del capitale finanziario internazionale e all’imposizione di politiche di austerità da parte del governo sudafricano.

Negli ultimi anni questo tentativo ha cominciato a segnare il passo. Sia sul piano interno, con la crescita della protesta dei lavoratori e degli oppressi. Sia sul piano internazionale, con il progressivo avvicinamento del Sudafrica di Zuma al blocco dei paesi emergenti.  Noi salutiamo questo corso, che pure non si svolge dietro la nostra prospettiva di classe, per la scossa che esso assesta al principale nemico degli sfruttati del mondo intero e per l’entrata in scena in Africa e nel cosiddetto "Terzo Mondo" di un’enorme massa di lavoratori con aspirazioni di progresso sociale. Ne ricostruiamo sinteticamente i momenti salienti nelle pagine che seguono.

Indice

  • 1. La colonizzazione europea, la scoperta dei diamanti e dell’oro, lo stato razzista dell’apartheid, la vittoria dell’Anc del 1994       

  • 1a. Oppressione di classe e oppressione di razza

  • 1b. Nasce lo stato segregazionista

  • 1c. La gerarchizzazione della classe lavoratrice

  • 1d. La "grande apartheid"

  • 1e. La fine dell’apartheid

  • 2. Il Sudafrica del dopo apartheid

  • 2a. La vera conquista.

  • 2b. Riprende lo scontro di classe

  • 1. La colonizzazione europea, la scoperta dei diamanti e dell’oro,

    lo stato razzista dell’apartheid, la vittoria dell’Anc del 1994         

    Lo stato sudafricano nasce nel 1910. È il frutto maturo di quattro secoli di colonizzazione e spoliazione europee.

    1a. Oppressione di classe e oppressione di razza (up)

    L’opera inizia nel XV secolo con la costruzione di stazioni di rifornimento per i convogli commerciali in rotta tra le Indie orientali e l’Europa. Continua con la costituzione di una vera e propria colonia europea nel 1652 nella penisola del Capo di Buona Speranza da parte della Compagnia olandese delle Indie Orientali, la più grande società commerciale del mondo di allora, dominatrice, con 6mila navi, dei traffici tra l’Europa e l’Asia sudorientale.

    Per risparmiare sui costi dei commerci e per rendere più efficienti i rifornimenti, la Compagnia e il governo olandese spingono i coloni a trasformarsi in agricoltori indipendenti non più alle dirette dipendenze della Compagnia. La giovane colonia cresce e fa affari grazie al lavoro degli schiavi importati da altre zone dell’Africa (Madagascar e Mozambico) e dall’Asia (Indonesia, India, Ceylon) e grazie allo sfruttamento delle terre coltivabili e dei pascoli strappati a suon di cannonate e fucilate ai khoi-khoi, le popolazioni indigene costrette a loro volta a lavorare come semi-schiavi nelle aziende dei coloni, i cosiddetti boeri (in olandese boero significa contadino). Lo sviluppo di questa agricoltura a base semi-schiavistica suscita l’elaborazione e l’affermazione in seno alla colonia europea di un’ideologia di supporto razzista che, pur attraverso modifiche e aggiornamenti all’insegna della "scientificità", rimarrà un a trasformarsi in minatori. Già nel 1875, a nemmeno un decennio dalle scoperte dei primi giacimenti, il loro numero è di oltre 75mila. Nel 1907 dalle miniere sudafricane si estrae un terzo della produzione mondiale di oro.

    Da oltre un secolo, gli economisti e i filosofi al soldo dei capitalisti si affannano a dimostrare che la teoria del plusvalore di Marx è infondata. Eppure, a far crollare le loro chiacchiere basterebbe l’accanimento con cui i colonizzatori europei dell’Africa meridionale si sono impegnati a organizzare il sistema di reclutamento, di super-sfruttamento e controllo poliziesco dei lavoratori neri che ha retto fino alla fine del XX  secolo, che è stato la fonte di tante fortune private e che ha rappresentato uno dei pilastri dell’ordine capitalistico internazionale. In un certo qual senso si può dire che la storia delle colonie sudafricane e poi dello stato sudafricano dalla fine del XIX secolo alla fine del XX secolo è, nei fatti, la storia delle politiche per impiantare e per perfezionare questo sistema contro la resistenza delle popolazioni indigene e poi dei proletari indigeni.

    Questa storia si svolge in due fasi: quella pionieristica, che sbocca nella guerra anglo-boera e nella formazione dell’Unione Sudafricana; quella successiva alla prima guerra mondiale, con la prima esplosione di un moderno scontro di classe e la messa a punto, dopo la seconda guerra mondiale, di uno dei capolavori della civiltà bianca: la grande apartheid. ingrediente vitale del Sudafrica. Per tale ideologia le genti africane sono "skepsel", cioè esseri viventi più elevati degli animali ma inferiori agli esseri umani. La schiavitù viene limitata e poi superata nel XIX secolo sotto l’impulso del brigante europeo che, sostituita l’Olanda nel controllo delle rotte con l’Asia, prende in mano la colonia del Capo: la Gran Bretagna (1). Ma per i lavoratori africani e per le popolazioni indigene la politica anti-schiavista britannica è solo l’inizio di un ancor più sanguinoso e penoso capitolo della loro sottomissione alla civiltà capitalistica europea. Sia perché i boeri, messi in difficoltà dal controllo assunto dai capitalisti britannici nella zona del Capo, si spostano in massa verso il nord-est, strappano ettari su ettari alle popolazioni Zulu che vi abitano, le sconfiggono grazie alle armi sofisticate di cui dispongono e vi fondano due stati, le repubbliche del Transvaal e dell’Orange, che clonano la società costruita nei tre secoli precedenti sulla costa occidentale. E sia perché la scoperta, proprio nelle regioni "boere", delle miniere di diamanti (1869) e di quelle di oro (1886) fa precipitare dall’Europa sull’Africa meridionale un fiume di cavalieri del lavoro, industriali, finanzieri, poveri cristi in cerca di arricchimenti, i quali, per setacciare il sottosuolo, di cui si appropriano con la forza delle armi e della legge cucinata a loro uso e consumo, setacciano l’intera Africa australe alla ricerca della vera pepita in grado di rendere profittevole l’estrazione dei preziosi metalli: la manodopera da impiegare nelle loro miniere. Con la violenza, la corruzione,  l’inganno e il loro totale inserimento entro il circuito monetario capitalistico, intere comunità indigene sono distrutte e centinaia di migliaia di giovani neri sono costretti

    1b. Nasce lo stato segregazionista (up)

    Nella prima fase si traccia la via. All’inizio del XX secolo, la massa degli operai neri è diventata così ampia che l’azione terroristica svolta dai singoli capitalisti per soggiogarli non è più sufficiente. Tale azione va accompagnata con quella, più efficiente, di una macchina specificamente dedicata  questo scopo e comune a tutti gli sfruttatori bianchi. Tale macchina non può che essere un apparato statale.

    Essa nasce, sotto il nome di Unione Sudafricana, nel 1910. Il nuovo stato priva del diritto di voto gli africani che abitano entro i suoi confini. Nel 1911 vengono imposti i "pass": la popolazione di colore non può lasciare liberamente i territori dove è occupata. Nel 1913 si stabilisce per legge che solo il 7% delle terre (sarà portato al 14% nel 1936) possono essere possedute dai neri, dalle popolazioni indigene che le hanno abitate da decine di migliaia di anni e dai loro discendenti. I neri sono costretti, così, a cercare il loro pane nel lavoro minerario (2). Nello stesso anno viene emanato un decreto che vieta rigidamente di occupare i neri in mansioni specializzate. La manodopera nera è spesso segregata in aree recintate, collegate con cunicoli alle miniere, da cui i lavoratori non possono uscire e che devono lasciare, per tornare ai rispettivi villaggi, al termine dell’ingaggio (3). L’impero britannico anti-schiavista, che si era fatto le ossa con il commercio triangolare schiavista, vieta la riduzione degli esseri umani in schiavitù ma, sotto la forma del "libero" contratto di lavoro salariato, generalizza alle miniere e alle industrie che sorgono in connessione con le miniere il trattamento che i boeri avevano stabilito a "livello artigianale" nelle loro aziende agricole. I lavoratori non sono più schiavi, non sono più mantenuti dal loro padrone con una parte della ricchezza che essi contribuiscono a creare con il loro lavoro. Devono provvedere al loro mantenimento e alla loro riproduzione per conto proprio, con il loro salario, che essi sono costretti a spendere negli accasamenti e negli spacci della stessa impresa mineraria che li sfrutta. Possono così essere torchiati senza alcuno scrupolo di depauperare eccessivamente lo "strumento parlante" (4). Senza doversi sobbarcare gli oneri del mantenimento quando esso non è più abile al lavoro o è messo alle porte per insubordinazione. Su questa base, i piccoli proprietari agricoli e industriali boeri si ritrovano d’accordo con gli odiati britannici e accettano, dopo la sconfitta militare nella guerra del 1898-1903, di centralizzarsi ai più potenti capitali britannici: le loro repubbliche del Transvaal e dell’Orange perdono l’indipendenza, sono incorporate insieme alla colonia britannica del Capo nell’Unione Sudafricana, ma trovano condizioni migliori per coltivare i loro interessi borghesi e soprattutto per conservare lo schiacciamento della manodopera nera.

    1c. La gerarchizzazione della classe lavoratrice (up)

    Nella seconda fase intervengono due novità. La prima è l’accorpamento nel blocco sociale dominante, come gregari, dei proletari bianchi immigrati dall’Europa e impiegati in mansioni specializzate. Dopo la prima guerra mondiale i capitalisti cominciano, sia pur col contagocce, ad aprire le porte delle mansioni specializzate ai lavoratori neri. Vi sono spinti dal crescente bisogno di manodopera specializzata richiesta da un apparato industriale che nel giro di pochi anni è passato ad un livello altamente meccanizzato per effetto della grande quantità di terra da estrarre per ottenere i metalli preziosi (5). Vi sono spinti anche dall’intenzione di dividere i 300 mila proletari neri e di indebolire la forza contrattuale delle organizzazioni sindacali e politiche che essi stanno costituendo: l’Industrial and  Commercial Workers Union of Africa (fondato nel 1919), il partito comunista del Sudafrica (fondato da proletari bianchi africani e asiatici nel 1921) e l’Anc (fondata nel 1912). Preoccupati per il ridimensionamento dell’importanza e dello status del loro lavoro qualificato, nel 1922, i 30mila proletari bianchi, che negli anni precedenti hanno esportato in Sudafrica le organizzazioni sindacali e politiche (6) affiliate alla Seconda Internazionale, scendono in lotta per chiedere allo stato il riconoscimento del loro diritto a un trattamento privilegiato rispetto ai lavoratori di serie B neri. Il governo e la Chambers of mines reprimono il moto. A muoverli, è anche la preoccupazione che un’ala del movimento proletario bianco, nonostante la sue connotazioni ideologiche e politiche di partenza (7), possa andare nel corso della lotta a congiungersi con quello dei neri. Proprio per questo, nello stesso tempo, vengono varate alcune misure per consolidare il blocco sociale tra lavoratori bianchi e grande capitale minerario ed industriale.

    Tra queste la legge (del 1923) che prevede l’espulsione dei neri dalle zone residenziali "bianche" e la loro reclusione in ghetti periferici riservati esclusivamente ad essi. Si va così rafforzando quella differenziazione tra operai bianchi e operai neri che, per dirne una, porterà a far sì che nel 1970 la paga media corrisposta ai salariati bianchi nelle miniere sia 16 volte superiore a quella versata ai neri.

    La seconda novità è legata alla crescita numerica del proletariato nero nel corso degli anni trenta e, soprattutto, della seconda guerra mondiale (nel 1939 sono più di 800mila gli operai neri impiegati nelle miniere e nelle industrie manifatturiere) e alla parallela crescita della sua capacità contrattuale. Il paese diventa uno dei centri industriali dello schieramento capitanato dagli Usa. Nel 1943 la produzione manifatturiera supera quella mineraria. Anche le donne cominciano ad essere reclutate come operaie.

    I padroni sono costretti a infrangere il tabù e ad assumere i lavoratori neri in mansioni qualificate. Tra il ’39 e il ’45 vi è un autentico fiorire di scioperi e di lotte. Nascono, si sviluppano e si diffondono le organizzazioni sindacali (la più importante delle quali è il Council Non European Trade Union). Le lotte si accendono anche nelle aziende agricole. All’immediato, sotto l’urgenza dello scontro bellico con la Germania, l’Italia e il Giappone, la borghesia sudafricana e l’imperialismo britannico  cercano di arginare come possono il movimento di lotta nato nei loro lager sudafricani. I padroni manifatturieri riconoscono aumenti salariali del 50% in cinque anni. Ma, superata l’emergenza, si passa al contrattacco su tutta la linea.

    1d. La "grande apartheid"  (up)

    Il segnale parte dalle campagne. Si interviene terroristicamente. Lo stato sudafricano usa l’aviazione militare, seguendo dell’Italia in Libia e in Etiopia. Poi l’azione repressiva si estende alla classe operaia industriale e all’insieme della popolazione nera(8).

    A guidare questa offensiva dell’intero capitale sudafricano e internazionale è il National Party, formazione a base boera che nelle elezioni del 1948 scalza il "britannico" United Party dalle postazioni governative. Il National Party si basa su un blocco sociale inter-classista: c’è la piccola borghesia spaventata dalle lotte dei neri e dal potere asfissiante dei gruppi monopolistici che dominano il paese; ci sono gli operai afrikaans preoccupati per la concorrenza dei proletari di colore; ci sono i possidenti agrari che premono per un più rigido regime dei "pass". Questo amalgama sociale è impastato con un’ideologia razzista e demagogicamente "anti-monopolista e anti-britannica" .

    Se la cosiddetta politica "antimonopolista" si tradurrà, di fatto, soltanto nel favorire l’avanzata dei monopoli industriali e finanziari di matrice boera ai vertici della piramide economica, ben diverso sarà la coerenza con cui verrà messa in campo l’azione per schiacciare, ghettizzare e segregare le popolazioni indigene. Tra il 1950 e il 1953 sono vietati i sindacati e gli scioperi dei lavoratori neri, i "pass" diventano più vincolanti, sono vietati matrimoni e rapporti sessuali inter-razziali, è imposta la separazione tra bianchi e colorati negli uffici negli autobus e nei luoghi pubblici (spiagge incluse), sono ampliate le condizioni che permettono al governo di decretare lo "stato d’emergenza", è sancita esplicitamente l’istituzione di un sistema scolastico separato per i "neri". Il perfezionamento e il rafforzamento dell’apparato segregazionista e razzista giugono fino alla costituzione dei bantustan, territori lager, dove tra 1960 e il 1989 vengono forzatamente deportati quasi quattro milioni di africani.

    A questo perfezionamento e a questo rafforzamento concorrono le iniziative per rimpolpare il numero di neri da riversare sul mercato del lavoro ad uso e consumo dell’industria mineraria e manifatturiera: braccianti e contadini poveri sono espulsi dai campi (conseguenza della meccanizzazione dell’agricoltura intensificatasi all’indomani della seconda guerra mondiale); si organizzano sistematiche aggressioni nei paesi limitrofi, con il doppio fine di rastrellare forza lavoro a bassissimo costo e di combattere i movimenti anti-coloniali che nell’Africa australe, tra gli anni ’50 e ’80, lottano armi alla mano contro la dominazione colonialista.

    Il Sudafrica dell’apartheid diventa così uno dei pilastri dell’ordine imperialista americano uscito trionfante da un conflitto, la seconda guerra mondiale, combattuta, secondo la propaganda ufficiale alleata, contro il razzismo del Terzo Reich. Uno degli stati con cui il Sudafrica più strettamente collabora per svolgere questo ruolo è Israele, il quale, nel nome della persecuzione subita dagli ebrei in Europa, costruisce l’apartheid contro il popolo palestinese. Meraviglie della civiltà bianca capitalistica!

    Il proletariato nero cerca di reagire colpo su colpo a questa morsa. Ma è solo negli anni settanta che riuscirà ad alzare la testa. Fino allora l’Unione Sudafricana e gli interessi imperialisti hanno buon gioco. Il regime terroristico instaurato contro il proletariato indigeno riesce ad abbassare notevolmente il costo del lavoro. Vari calcoli mostrano che i salari reali nelle miniere sudafricane sono restati sostanzialmente inalterati dal 1887 al 1970. Un fiume di investimenti esteri, soprattutto dal paese finanziariamente dominante in Occidente, si riversano nel paese attratti dagli alti tassi di profitto ivi realizzabili. Negli anni ’60, il 45% delle azioni dell’industria mineraria del paese è in mani statunitensi.

    1e. La fine dell’apartheid (up)

    È solo negli anni settanta che la stabilità del regime sudafricano comincia ad incrinarsi. Da un lato, lo schieramento imperialista di cui il Sudafrica razzista fa parte è indebolito dalle lotte dei popoli del Sud del mondo (tra cui quella condotta in Asia orientale dal popolo vietnamita e quella per il rialzo del prezzo del petrolio trainata dal nazionalismo arabo à la Saddam-Gheddafi), dalla ripresa di combattività proletaria in Europa e dalla recessione internazionale del 1973. Dall’altro lato, pur se privo di organizzazioni sindacali e politiche legali, il proletariato nero sudafricano, nel frattempo cresciuto numericamente e accentrato in stabilimenti giganteschi, trova la forza per rivendicare aumenti salariali per strappare il diritto di organizzarsi. L’ondata di scioperi parte nel 1972 da Durban e si estende in breve alla zona strategica di Johannesburg. Pur privo di risultati immediati significativi, il movimento di lotta permette di sperimentare la forza potenziale di cui la classe proletaria nera dispone.

     La fiducia nella propria capacità di far saltare l’apartheid si accresce grazie all’esempio dei movimenti anticoloniali in Mozambico, Zimbabwe e in Angola, che nel 1975 riportano la vittoria, anche contro le forze armate di Pretoria (9). Lo scontro di classe acceso dalla rivolta della gioventù del ghetto di Soweto nel 1976, scoppiata contro la decisione del governo di introdurre l’insegnamento della lingua afrikaans nelle scuole per neri, mostra agli occhi del mondo intero questo nuovo sentimento dell’intera popolazione lavoratrice nera. La feroce repressione riporta l’ordine, ma si avvia la costituzione di organismi di lotta di massa anche nei ghetti. Il centro delle rivendicazioni si sposta dal versante economico a quello politico. Nel 1985 si costituisce la confederazione sindacale del Cosatu (10).

    L’instaurazione dello stato d’emergenza e l’azione di divisione della popolazione nera attraverso i capi tradizionalisti installati alla direzione dei bantustan con cui i vertici sudafricani cercano di contenere e minare il processo di organizzazione degli sfruttati neri, ottengono effetti limitati. Il regime traballa. Una crescente fetta della borghesia e della popolazione bianca comincia a rendersi conto che la situazione non è più sostenibile e che "o si cambia o si rischia davvero di perdere tutto". I re delle borse mondiali la pensano allo stesso modo: bisogna tentare di avviare un processo di transizione "pacifico" (11) che liquidi definitivamente l’apartheid, ma sia capace di contenere e canalizzare la spinta del proletariato nero intaccando il meno possibile il potere economico e finanziario del paese.

    È in questo spirito che nel 1987 il National Party di Botha comincia ufficiosamente i colloqui con la dirigenza dell’Anc in carcere ed in esilio. Nel 1989 i negoziati subiscono un’accelerazione e De Klerk succede a Botha. Nel 1990 è abolita la pena di morte, dopo 27 anni di prigionia viene liberato Nelson Mandela e l’Anc torna ad essere legale. Nel 1991 i negoziati diventano ufficiali e un referendum, a cui per l’ultima volta sono chiamati a votare solo i bianchi, acconsente alla linea delle trattative con il 70% dei consensi. Nel 1993 è promulgata la costituzione provvisoria: essa non prevede più l’apartheid e il suo corollario di bantustan. Nel 1994 le prime elezioni politiche multirazziali: vince l’Anc con oltre il 63% dei voti; Mandela è eletto presidente della "neonata" Repubblica Sudafricana.

    Il Sudafrica, pur se carico di enormi contraddizioni, ha voltato pagina. Il proletariato nero è stato il principale artefice della sconfitta dell’apartheid.

    Note (up)

    (1) La nuova amministrazione britannica, tra le altre cose, immette una tassa sulla schiavitù e stabilisce un massimo per le ore lavorate ed un minimo per il cibo da fornire quotidianamente alla manodopera nera nei campi. Gli inglesi non agiscono in tal senso perché spinti "dall’amore verso la libertà e la giustizia", ma perché puntano ad instaurare anche nell’Africa meridionale rapporti sociali più consoni allo sviluppo di quel moderno capitalismo di cui Londra era la culla e l’alfiere. Per un inquadramento secondo la concezione marxista dello scontro tra i colonialisti boeri e i colonialisti britannici e della successiva guerra anglo-boera, si veda il capitolo XXIX ("La lotta contro l’economia contadina") dell’opera di R. Luxemburg L’accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo, 1912.

    (2) "Per reclutare lavoratori maschi giovani la Camera delle miniere [la Confindustria dei padroni minerari, n.n.] si avvale di commercianti, di criminali e dei capi tradizionali consenzienti. A partire dal 1910 questa prassi segue sempre il criterio del minor costo e riguarda aree geografiche sempre più vaste. Nel 1920 il sistema di controllo centralizzato dei flussi di forza lavoro tocca più di 200mila lavoratori, cifra che negli anni successivi crescerà fino a toccare nel 1961 il picco di 430mila migranti" (A. Butler, Limes, n. 3, 2010).

    (3) "È un chiaro vantaggio -confessa un portavoce ufficiale delle industrie minerarie- il fatto che gli operai nativi vengono incoraggiati a tornare alle rispettive case alla fine di ogni periodo di lavoro. La riproduzione del sistema per cui è possibile per le miniere ottenere lavoro non specializzato a un tasso inferiore di quello normalmente pagato nelle industrie dipende da questo, perché altrimenti gli altri mezzi di sostentamento scomparirebbero e gli operai comincerebbero a diventare residenti permanenti di Witwatersrand con crescenti bisogni". La dichiarazione risale al 1944 ma vale per l’intera storia del Sudafrica razzista.

    (4) Così veniva spesso definito lo schiavo.

    (5) Per ottenere 30 grammi d’oro è necessario estrarre quattro tonnellate di terra.

    (6) Queste organizzazioni, di fatto, escludono dalle loro fila la partecipazione dei lavoratori neri.

    (7) Il motto di questa sollevazione fu: "Lavoratori bianchi del Sudafrica uniti per una nazione bianca".

    (8) Nel 1950 viene messo fuorilegge il partito comunista sudafricano. Nel 1960 toccherà all’Anc.

    (9) In Angola nel 1975 le milizie del Fronte di Liberazione Nazionale coadiuvate da truppe cubane sconfiggono il super-armato e super-addestrato (dall’Occidente) esercito di Pretoria, messo in rotta e cacciato dai confini del paese.

    (10) All’inizio degli anni 80 oltre l’80% dei lavoratori neri è iscritto a un sindacato.

    (11) In realtà la transizione fu ben poco pacifica. Tra il 1990 e il 1994 si combatté unaguerra civile strisciante per l’egemonia nei sobborghi neri e nei bantustan. Gli attori principali di questo scontro, che provocò più di diecimila morti, furono l’Anc e il partito Inkata (formazione collaborazionista a base "etnica" Zulu, foraggiata, armata e istigata dal National Party e dal governo sudafricano).

    2. Il Sudafrica del dopo apartheid (up)

    A quasi venti anni dalla sconfitta dell’apartheid quale è la situazione delle masse proletarie e popolari nere del Sudafrica? Ha ottenuto risposta la loro domanda di avanzamento e progresso sociale in nome della quale è stata da esse combattuta la lunga, sanguinosa ed eroica lotta contro il regime della segregazione razziale?

    La fine dell’apartheid non comporta la capitolazione dell’imperialismo e del capitale "bianco". Essi subiscono un duro colpo, ma sin dal momento dell’apertura delle trattative con l’Anc, alla fine degli anni ‘80, si adoperano per limitare i danni e fare di necessità virtù. Il principale strumento utilizzato è quello del ricatto economico e finanziario. L’intero apparato produttivo ed industriale del paese è nelle loro mani, la sua riproduzione efficiente dipende dai loro investimenti. La minaccia di un loro ritiro vien fatta pesare (ancor oggi) come una spada di Damocle sulle sorti economiche del paese.

    2a. La vera conquista (up)

     L’Anc affronta questo ricatto seguendo le linee dettate dall’impostazione di fondo del suo programma. I vertici dell’Anc ritengono possibile, sulla base della conquistata uguaglianza formale tra i cittadini di ogni razza e del futuro riequilibrio interrazziale dell’economia di mercato, giungere a riconciliare i monopoli bianchi che dominano la scena economica del paese con le istanze delle popolazioni nere. Sotto il fuoco dei ricatti del potere bianco, questa prospettiva porta i vertici dell’Anc a rinculare rispetto agli obiettivi stabiliti nella sua Freedom Chart del 1955. La riforma agraria e la nazionalizzazione delle principali risorse economiche del paese sono messe ai margini. Oltre a ciò il governo del Sudafrica vara politiche di "austerità e risanamento economico" rispettose delle esigenze dei mercati internazionali. La base economica e sociale dell’apartheid resta sostanzialmente intatta.

    All’inizio del XXI secolo la comunità anglofona controlla ancora il 75% del capitale quotato nella borsa di Johannesburg. Le migliori terre coltivabili continuano ad essere nelle mani della comunità afrikaaner. È vero che sotto la pressione del Cosatu e delle organizzazione di base alleate dell’Anc, le condizioni di vita nei sobborghi periferici sono lievemente migliorate grazie all’introduzione nella politica del governo di iniziative volte al risanamento delle abitazioni e delle infrastrutture: l’accesso "facile" all’acqua potabile e la fornitura di energia elettrica superano oggi l’80% delle abitazioni. È, tuttavia, altrettanto vero che le piaghe dell’epoca dell’apartheid sono ancora vive: una quota consistente della popolazione sudafricana (50%) vive ancora sotto il livello di povertà ed essa è quasi esclusivamente composta da neri e meticci; il tasso di analfabetismo si aggira intorno al 14%; la mortalità infantile rimane drammaticamente elevata (6,2%) nei settori più poveri della popolazione; la disoccupazione è alta (24%) e "ovviamente" colpisce soprattutto i proletari di colore (tra i bianchi il tasso di disoccupazione scende al 5%); il 44% degli occupati neri guadagna meno di 100 dollari al mese; addirittura la stessa aspettativa di vita, che nel 1970 era di 53,7 anni, è ora scesa a 47 anni (a causa soprattutto alla diffusione negli strati poveri sudafricani dell’Aids e di altre malattie correlate).

    Un bilancio, dunque, solo e soltanto negativo? Andiamoci piano. Innanzitutto, i limitatissimi miglioramenti strappati hanno, in ogni caso, alleviato le pene della popolazione di colore ed essi, lungi dall’essere stati un regalo dei vertici Anc o della minoranza bianca, sono il risultato solo e soltanto della lotta proletaria. La fine della segregazione razziale per le masse lavoratrici di colore ha, inoltre, significato la fuoriuscita da un regime di terrorismo di stato e la conquista  effettiva delle più elementari libertà politiche e sindacali. Questa è stata la principale vittoria strappata nella lotta contro l’apartheid. Una conquista che il proletariato nero sta cercando di mettere a frutto per far sentire il peso delle proprie esigenze nello scontro politico e sociale e per andare avanti nella propria organizzazione. Ne abbiamo una prova negli avvenimenti degli ultimissimi anni.

    2b. Riprende lo scontro di classe (up)

    Dopo quindici anni di attesa, constatata la limitatezza dei risultati concreti ottenuti, i lavoratori sudafricani, incoraggiati dalle organizzazioni di base del Cosatu (giunto a raggruppare un milione e 200mila iscritti) e del partito comunista, riaprono le ostilità. Contro il padronato bianco. Ma anche contro il governo dell’Anc.

    Nell’agosto del 2010 il paese è scosso da un ampio sciopero dei dipendenti della sanità e della scuola per consistenti aumenti salariali. Durante gli scioperi è schierato l’esercito, che spara proiettili di gomma e ferisce parecchi manifestanti. Nell’estate 2011 le agitazioni si estendono al settore privato: metalmeccanici, chimici, minatori, lavoratori del petrolio e del legno scioperano insieme per rivendicare consistenti aumenti salariali e un salario minimo di 6mila Rand (600-650 euro). In quasi tutti i settori la lotta si conclude con la conquista di aumenti salariali del 10% circa.

    Intanto il Cosatu mette in cantiere la battaglia per ridurre la settimana lavorativa dalle attuali 45 a 40 ore. A causa di queste "novità", alcuni investitori internazionali iniziano a considerare il mercato del lavoro sudafricano troppo "rigido" e troppo condizionato dall’attività sindacale.

    Questi signori hanno l’occhio lungo: intuiscono che la spinta dei proletari neri non si limita all’orizzonte sindacale, investe l’intero assetto degli equilibri sudafricani e continentali. Nel 2009 si svolgono le elezioni presidenziali. Esse portano alla vittoria di Zuma, la cui candidatura all’interno del partito di Mandela è sostenuta dalla base in contrapposizione alla moderazione sociale e politica della leadership di Mbeki, giudicata troppo accondiscendente alle esigenze dei mercati e troppo distante dai problemi dei lavoratori e dei poveri. "Zuma ha preso le insegne del comando a Pretoria circondato da un’aura populista. Nel suo lungo braccio di ferro contro Mbeki ha prevalso grazie all’appoggio del potente sindacato Cosatu, della lega giovanile (Ancyl) e del Partito comunista (Sacp), oltre che dei veterani dell’Umkhonto we Sizwe, braccio armato dell’Anc nella battaglia contro il regime razzista" (Limes, n.3, 2010).

    Acque agitate soprattutto nella lega giovanile dell’Anc: "Malema [leader della lega] conta perché interpreta sentimenti epidermici diffusi fra i neri più poveri. Per i quali i bianchi conservano troppo potere, specie economico. Mentre i capi dell’Anc si preoccupano dei loro affari e non di spossessare i bianchi dai loro privilegi. I modelli di Malema sono Mugabe  (2.1) e Chavez. Estroversi nemici dell’Occidente, paladini delle nazionalizzazioni." La mutata temperatura sociale si sta, infine, riflettendo anche nella collocazione internazionale del paese, con la direzione dell’Anc spinta e "aiutata" a cercare un più deciso smarcamento dall’imperialismo con il consolidamento delle iniziative in seno all’Unione Africana e con la tessitura dei rapporti con il Bric. La massa dei lavoratori di colore continua a riconoscersi nell’Anc. Quello che le chiede è di operare una secca virata nella sua azione politica. In questo contrasto tra la base proletaria e i vertici dell’Anc e nella fiammata di lotte in corso, i militanti proletari del Sudafrica stanno tornando a impattare con i nodi politici con cui l’avanguardia proletaria si è scontrata più volte nella secolare lotta contro l’apartheid (soprattutto nei momenti decisivi del primo dopoguerra e della fase di "transizione" 1989-1995). Tali nodi rimandano al legame tra la lotta per l’emancipazione di classe e quella per l’emancipazione razziale. Torneremo a parlarne nei prossimi numeri.

    Note

    (2.1) Su Mugabe e sullo scontro di classe in corso nello Zimbabwe rimandiamo a quanto scritto nel n. 59 di che fare.

     Che fare n.75 Dicembre 2011 - Marzo 2012

        ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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