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Marcia 2000: la mobilitazione delle donne è ricominciata.
Il proletariato tutto ne raccolga e sviluppi il messaggio di lotta!

Indice

 

L’anno appena trascorso ci ha consegnato una bella novità: la formazione di un primo embrione di movimento mondiale di lotta delle donne. Abbiamo preso parte con entusiasmo a questa "nascita" avvenuta nelle strade di Washington, di New York, di Bruxelles, insieme a decine di migliaia di donne (e di uomini) di tante nazionalità. Proviamo a svolgere in questo supplemento qualche considerazione sulle radici di questo movimento, sulle sue caratteristiche attuali, sulle alternative che già gli si parano davanti. E a vedere ciò che noi comunisti, a condizione di raccoglierne in pieno gli stimoli, possiamo e dobbiamo importarvi onde dargli più forza e più chiarezza, e integrarlo nella lotta (a venire) per la distruzione del capitalismo.


La marcia mondiale delle donne che si è conclusa alla metà di ottobre, è stata una delle più importanti e vitali reazioni alla mondializzazione delle politiche liberiste dell’ultimo ventennio. Una reazione significativa già sul piano dei numeri, 10-15.000 manifestanti a Washington, 15-20.000 a New York, 40.000 a Bruxelles, tre manifestazioni calde, piene di lavoratrici e di giovani, a spiccato carattere multinazionale e multirazziale, ricche di un ampio spettro di denunce "anti-capitaliste", per nulla ostili alla propaganda comunista, doppiate da molte altre dimostrazioni, talora di entità superiore come in Marocco, in Canada o in Brasile, con un largo retroterra fatto di 5.000 associazioni aderenti dai quattro angoli della terra e 4-5 milioni di "firme" a sostegno dell’iniziativa.

Le radici del movimento

Questa mobilitazione mondiale delle donne va ad affiancarsi ad altre espressioni di lotta che, negli ultimi anni, hanno assunto una certa valenza internazionale: dagli scioperi operai della Corea, della Gm e dell’Ups alle marce dei neri negli Stati Uniti, dalla nuova Intifadah palestinese alle lotte dei contadini del Brasile, dell’India e dello Zimbabwe, dalla dimostrazione di Seattle a quella di Nizza. E al pari di queste altre lotte a cui è da mille fili legata, è una risposta all’insostenibile crescita dello sfruttamento e dell’oppressione che il capitalismo imperialista globalizzato sta scaricando sulle spalle della comune umanità lavoratrice, a iniziare dalle donne, il sesso strutturalmente e ideologicamente oppresso.

Parliamo anzitutto delle donne salariate e delle casalinghe, che stanno sperimentando un peggioramento delle loro condizioni di lavoro e di esistenza già nello stesso mondo occidentale, e quindi, con i debiti distinguo, dell’intero universo delle donne. Per la grandissima parte di queste donne la vita è diventata, o è destinata a diventare in tempi non lunghi, più dura. Più dura sul posto di lavoro, quando un lavoro lo si ha, o non lo si è perduto. Più dura in famiglia, là dove la schiavitù domestica, mai scomparsa, è aggravata dai tagli alla spesa sociale. E più dura nella società, dove la mercificazione dei rapporti umani ha raggiunto livelli allucinanti che coinvolgono tutti, ma ricadono in modo fortemente differenziale sulle donne (si pensi alle tante forme di oltraggio sessuale fino alla violenza più estrema, che nel 99% dei casi hanno come vittima la donna).

Con tutti i limiti delle formule sintetiche e agitatorie, il binomio "povertà-e-violenza" scelto dalle organizzatrici come motto della marcia, sottolinea con efficacia che il peggioramento che la massa delle donne sta vivendo è globale. Questo peggioramento assume tratti spesso catastrofici nei paesi terzi assoggettati alle terapie assassine del Fmi, devastati dalle aggressioni dell’Onu e della Nato, o spappolati da guerre "inter-etniche" invariabilmente a regia "esterna". Paesi nei quali il quadro delle privazioni, dei dolori e delle umiliazioni accollate alle donne (si pensi alle moltitudini di contadine africane o alle sfortunate abitanti delle favelas latino-americane) è segnato da un surplus di stenti e di brutalità inenarrabili.

Può sembrare paradossale che una tale reazione si sia verificata proprio nel momento in cui la partecipazione delle donne al lavoro sociale è al suo massimo storico, a tassi quasi doppi rispetto a trent’anni fa. In realtà, questo "paradosso" prova soltanto che l’entrata nel mercato del lavoro capitalistico non può, di per sé, riscattare la donna da quella condizione di inferiorità e di segregazione sociale di cui essa soffre da millenni. Ma è anche la conferma di come, uscendo in parte fuori dalla prigione domestica ed entrando in modo più pieno, anche se non paritario, nel proletariato e nel mondo degli sfruttati salariati, la donna acquisti, in potenza, una maggiore coscienza di sé, del suo ruolo sociale, della sua forza, dei suoi irrinunciabili bisogni. È proprio questa accresciuta socialità, pur se si tratta di una socialità alienata (vissuta coattivamente per il capitale) e subordinata (al sesso maschile), che fa avvertire ad un’avanguardia mondiale delle donne l’aggravamento globale del proprio stato sociale, ad onta -quando e dove c’è- di un’apparente autonomia economica.

Sul piano soggettivo specifico, le radici più immediate della marcia affondano nelle attese suscitate, e deluse, dalla 4^ Conferenza mondiale delle donne organizzata dall’Onu a Pechino nel 1995, l’apice dell’iniziativa Onu verso le donne, e insieme "il culmine dello sforzo compiuto da gruppi di donne per esercitare pressioni politiche sui forum internazionali a favore dei propri obiettivi" (così il documento Onu The World’s Women 1995).

I gruppi in questione erano organismi collaterali ai rispettivi governi, e gli obiettivi da essi messi a fuoco attenevano fondamentalmente alle carte dei diritti, che nella maggior parte dei casi sono tuttora discriminatorie nei confronti delle donne. Questa sorta di lobbysmo "al femminile" rivendicava in un modo piuttosto trasparente per le donne occidentali, date falsamente per emancipate, e cioè per i relativi stati e capitalismi loro supposti emancipatori, il compito di "liberare" le donne del Terzo Mondo da forme di dipendenza e schiavitù altrettanto falsamente attribuite a semplici ragioni locali, di indole culturale, politica o religiosa; forme, la cui sopravvivenza molto deve, invece, proprio ai materialissimi interessi universali di sfruttamento e di rapina del capitalismo statunitense ed europeo. Il tema dell’assise onuista era: come un’élite, un’aristocrazia femminile, socialmente e politicamente borghese, può e deve essere chiamata a contribuire alla buona gestione del capitalismo mondiale con la specifica funzione professionale di rappresentare, attraverso il meccanismo della delega e nel rispetto delle compatibilità capitalistiche aromatizzate da una spolveratina di "pari opportunità", i bisogni e le aspettative della massa oppressa, delegante ed espropriata, delle donne.

Senonché, pur in quella sede così istituzionale, si verificò un aperto conflitto tra le delegate del Terzo Mondo e quelle dei paesi imperialisti (prescindiamo qui dal conflitto, anch’esso reale, tra le deboli lobbies femminili occidentali e i rispettivi governi e stati), mentre le attese in qualche modo sollecitate dalla Conferenza in strati di donne organizzate in organismi sindacali o femministi, restavano deluse. Queste attese non furono solo passive. Ad esempio la Federazione delle donne del Québec indisse una manifestazione di donne e di lavoratrici per fare pressione sulla conferenza di Pechino, dai cui sviluppi emerse la proposta di una iniziativa delle donne da svolgersi non intorno a tavoli diplomatici o in consessi para-governativi, ma nelle piazze di tutto il mondo, ci fossero o no (e in realtà non ce ne sono state) nuove iniziative dell’Onu "a favore" della donna.

Chi era in piazza, e come.

Cinque anni dopo il passo in avanti rispetto a Pechino 1995, è tangibile, ad iniziare dalla duplice esclusione decisa dalle organizzatrici della Marcia: 1) niente associazioni governative; 2) niente adesioni individuali di donne-"personaggi" che paternalisticamente si degnano patrocinare e nobilitare il moto delle anonime donne-nessuno.

L’enfasi si è spostata sull’azione diretta della massa, un’azione diretta che ha avuto dei momenti centrali di aggregazione alla scala continentale (Bruxelles) e mondiale (New York). Manifestazioni di lotta, conclusesi sì con la presentazione di petizioni alle autorità del capitalismo internazionale, e però attraversate dalla volontà di mettere in mora autorità politiche giudicate inadempienti rispetto agli impegni assunti, e di non esaurirsi con l’ottobre del 2000. Manifestazioni che hanno espresso lo sforzo di collegare tra loro, su un terreno comune di azione, le donne del Nord e del Sud del mondo, uno sforzo rimasto, è vero, ancora debolmente definito a misura che debole è stata la denunzia dell’imperialismo in quanto sistema di sfruttamento combinato e diseguale irriformabile da abbattere; e che tuttavia, a differenza dalla generalità delle manifestazioni metropolitane, hanno almeno saputo nominare la "questione" e hanno visto una prima sentita affermazione della solidarietà internazionale (notabene) tra donne come solidarietà tra oppresse. A New York lo slogan più gridato era: "solidarietà con le donne di tutto il mondo", e lo striscione di apertura diceva: "contro la globalizzazione neo-liberale, globalizziamo la solidarietà"…

Le donne della marcia mondiale non sono, se non in minima parte, le stesse della Conferenza di Pechino. Forte la presenza delle operaie e delle salariate, soprattutto a Bruxelles, dove contingenti significativi hanno sfilato organizzati dietro le bandiere della Cgt francese, delle Comisiones obreras, dei sindacati tedesco e belga. A New York le partecipanti, di età media sui trenta-quaranta, erano in maggioranza lavoratrici (anche) extra-domestiche. E nutrita è stata, specie a Bruxelles, la presenza delle donne immigrate, un ponte ideale e fisico tra il Nord e il Sud del mondo, con la loro duplice denuncia dell’oppressione e delle discriminazioni patite qui e lì. Ciò ha contribuito a dare ai tre cortei un tratto multirazziale molto più accentuato che in ogni altra recente dimostrazione a prevalente composizione maschile. E a farne uno specchio piuttosto fedele della crescente proletarizzazione delle masse femminili, bianche e di colore, e di un certo avvicinamento, almeno istintivo (non è poco), tra esse.

Anche la manifestazione di Washington, che sociologicamente è stata la meno proletaria e multirazziale delle tre, sarebbe sciocco snobbarla. Si trattava per lo più di giovani e giovanissime reclute bianche dei colleges e delle università; l’avanguardia di una nuova generazione (non insensibile ai temi internazionali) che s’affaccia alla lotta non perché avverta i morsi della fame, ma perché -qui sta il valore di classe della scesa in campo di soggetti di estrazione non direttamente proletaria- è preoccupata e incazzata per la prospettiva generale cui sta andando incontro la donna come lavoratrice, come madre, come oggetto di abusi sessuali.

Tutte e tre le manifestazioni erano piene di striscioni e cartelli. Numerosissimi i volantini distribuiti dalle più varie associazioni, dai sindacati e da partiti della sinistra riformista (scarsamente presente) ed estrema. Come a Seattle, una gamma vasta e varia di tematiche: la violenza e la povertà in testa, e poi il lavoro domestico, la disoccupazione, il razzismo, la pornografia, l’aborto, le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, l’uguaglianza dei diritti e dei salari nei posti di lavoro, i tagli del welfare per istruzione e sanità, ha espresso le mille ragioni di lotta contro gli effetti del capitalismo, che attendono solo di esser potentemente centralizzate in una sola lotta, la lotta per il comunismo, dentro il programma e il rinato partito del proletariato.

Tra queste mille ragioni di lotta le donne dei paesi dominati, del Messico e della Colombia, delle Filippine e dell’Iraq, del Sud Africa e del Congo, hanno messo in primissimo piano la denuncia dell’imperialismo, dei suoi piani finanziari e "umanitari", e delle sue guerre che dissanguano e vivisezionano i loro paesi. La loro denuncia non è caduta in un ambiente bianco ostile, anzi, soprattutto negli Stati Uniti, è stata accolta con calore. Le donne di colore non erano certo la maggioranza dei dimostranti, ma la loro forza, la loro rabbia e, spesso, il loro grado di organizzazione hanno infuso alle manifestazioni una particolare energia e passione militante, che peraltro non mancava neppure nelle donne "bianche". Non solo: da qualche punta più avanzata è arrivata la critica del "femminismo" istituzionale e sciovinista della socialdemocrazia europea, impegnato a deviare e insabbiare la spinta di lotta di questa mobilitazione internazionale delle donne nei parlamenti e nelle istituzioni del capitale, e a strappare ad esse una nuova delega che rimanderebbe tutte (e tutti) a casa nell’isolamento che uccide; ed impegnato, come sempre, a inferiorizzare e stigmatizzare le donne arabo-islamiche (e non solo quelle).

Un’altra caratteristica significativa della Marcia delle donne è che essa, tenendo giustamente fermo il suo carattere femminile, ha accettato la presenza solidale e compartecipe dell’"altro sesso" (che a Bruxelles toccava il 15% dei dimostranti) come una presenza con cui dialogare da doppiamente sfruttate a sfruttati comunque. Un motivo che abbiamo inteso raccogliere come Organizzazione firmando la nostra adesione alla marcia da "compagne e compagni dell’OCI", e predisponendo delle "delegazioni miste", proprio per sottolinearne il tratto non separatista, senza farne con ciò scomparire, in modo surrettizio, l’importante segno di iniziativa presa -finalmente!- da organismi femminili, e volta a far tornare in avanscena da protagonista un movimento femminile da un po’ di tempo assopito, come il proletariato tutto.

(Una precisazione: se le organizzatrici della marcia l’avessero chiusa all’elemento maschile, vi avremmo partecipato egualmente con le nostre compagne, sforzandoci di comprenderne le ragioni, ma al tempo stesso criticandole in modo franco, perché senza la ricomposizione, nella lotta, del fronte internazionale del proletariato e degli sfruttati di entrambi i sessi, non ci sarà vera liberazione per nessuno, ma solo perpetuazione del capitalismo, e della schiavitù, semplice, doppia o tripla, per tutti. Ciò che, peraltro, non ci stancheremo di ripetere al proletariato "maschile" perché si decida alla buon’ora a sostenere attivamente come propria la lotta dell’altra metà del suo stesso "cielo".)

Basta quanto s’è detto finora, speriamo, per intendere il senso e il valore politico delle manifestazioni di New York, Washington e Bruxelles. Ma abbiamo voluto egualmente fornirne ai nostri lettori, nelle pagine seguenti, una documentazione di prima mano, che nessun altro organo di stampa, tantomeno di sinistra, ha dato. Una documentazione che privilegia gli aspetti e le presenze di maggior interesse per i futuri sviluppi del movimento delle donne nel senso di una coerente lotta al capitalismo, e che perciò riguarda in modo precipuo le avanguardie di esso.

Il peso delle tradizioni, le potenzialità per il futuro

Proprio perché puntiamo a tali futuri sviluppi della lotta di classe anti-capitalistica, non ci nascondiamo i limiti che questa ripartenza della lotta delle donne ha al momento. Limiti anche numerici, evidentemente, non potendosi dimenticare che le donne che ci interessa scendano in lotta si contano a decine di milioni, ma soprattutto politici (e "razziali", vedi l’assai limitata partecipazione delle donne nere, presenti in massa, invece, alla One Million Family March organizzata il 16.10 dalla Nation of Islam), che dipendono più che da ragioni contingenti interne al solo mondo delle donne, da una pesante eredità storica dell’intero movimento proletario.

Quest’embrione di "nuovo" movimento internazionale delle donne non si sottrae alla legge del minimo sforzo e al peso delle tradizioni riformiste marce a cui, in quanto tale, è legato l’intero mondo degli oppressi. Il suo tratto politico e ideologico attuale è totalmente, e "necessariamente", riformistico. Esso reagisce agli effetti della globalizzazione ultra-liberista, ma non ne sa, non ne può, cogliere il senso intimo, afferrando per il collo le cause di questa situazione; che non stanno in questa o quella politica dei grandi poteri, ma nelle irriformabili necessità del capitalismo come sistema mondiale unitario, che nella sua fase storica di decadenza accentua in tutti i campi i suoi caratteri anti-sociali.

Anche nei testi preparatori o nei volantini più radicali diffusi alla Marcia, invece, si esprime il sogno di una riforma del capitalismo affidata alla "politica", agli stati, ai governi, al di sopra e contro le tendenze spontanee dell’economia, come da classico e mistificante manuale di sinistra. Qualche esempio da un documento delle gagliarde donne del Québec. Come eliminare la povertà? Attraverso "la messa in atto, da parte di tutti gli stati [dei ricchi, degli sfruttatori!], di una legge-quadro e di strategie tese a eliminare la povertà"; attraverso "l’applicazione di misure come la Tobin tax", il "finanziamento adeguato e la democratizzazione dei programmi Onu per la difesa dei diritti fondamentali delle donne e dei bambini", nonché attraverso la creazione di "un’organizzazione mondiale, non monolitica, che abbia autorità sull’economia con una rappresentanza egualitaria tra tutti i paesi della terra, che assicuri la parità tra i paesi poveri e i paesi ricchi, e con una rappresentanza paritaria tra donne e uomini". Campa caval che… la povertà cresce.

Come eliminare la violenza sulle donne? Con un’altra sfilza di ricette altrettanto illusorie e impotenti del tipo: "Che gli stati [si chiede protezione proprio alle macchine costruite per fare e proteggere la violenza di classe, di razza, di sesso] riconoscano nelle loro leggi e azioni che tutte le forme di violenza nei confronti delle donne sono delle violazioni dei diritti fondamentali. E così pure gli stati debbono riconoscere alle donne il diritto di disporre della loro vita, dei loro corpi, della loro fecondità". Oppure: "Che la Convenzione del 1949 per la repressione e l’abolizione della tratta di esseri umani e dello sfruttamento della prostituzione sia dotata di un meccanismo di applicazione" che la renda capace di produrre effetti. O ancora: "che tutti gli stati mettano in atto politiche di disarmo" e così via, in una sequenza di assurdità tipiche di quelle organizzazioni governative e di quelle donne-"personaggi" che a buon diritto si era voluto escludere dalle manifestazioni, senza però riuscire ad "escluderne", a negarne, la logica di classe. (Naturalmente questo non significa che i marxisti si rifiutino per principio di battersi per obiettivi anti-capitalistici "parziali" o immediati, e invitino le donne in lotta a fare altrettanto, ma solo che essi, in base ad una lunga esperienza storica, fanno dipendere in modo esclusivo la possibilità anche di limitati "avanzamenti" dal dispiegamento e dall’organizzazione dell’antagonismo di classe, e mai da appelli e petizioni ai poteri capitalistici perché siano e facciano il contrario di quel che sono e fanno in conformità alla loro natura sociale.)

Né ci si deve auto-ingannare leggendo nei testi delle donne messicane o colombiane o turche e curde la denunzia dell’imperialismo, perché in essi pressocché sempre il termine imperialismo non sta a significare il capitalismo in quanto sistema, ma indica "solo" gli Stati Uniti o una data politica degli Stati Uniti, e non è raro che la denunzia dell’"imperialismo" finisca, anche in questo caso, nella perorazione diretta di una riforma egualitaria e democratica delle Nazioni Unite, oppure in un appello indiretto, o implicito, ai concorrenti, europei o altro, dell’imperialismo statunitense. Non a caso a Bruxelles è stata lasciata parlare dal palco senza disturbo la Diamantopolou, esponente di quel "governo" europeo presieduto dal "nostro" Prodi, che succhia il sangue dei popoli di colore, che pratica infami politiche anti-immigrati e che con il suo liberismo, renano o emiliano che dir si voglia, concorre a peggiorare a tutti i livelli la condizione di vita delle donne.

Lo vedete?, ci dirà chi guarda con indifferenza a questa Marcia, o chi vede in essa più pericoli, pericoli di altro riformismo, di separatismo, di neo-femminismo e quant’altro, che potenzialità; lo vedete?, siete costretti a sgonfiare il palloncino che avete appena gonfiato. Nient’affatto. Noi dell’OCI salutiamo questa ripresa della mobilitazione delle donne, nonostante sia gravata dal peso di una lunga congiuntura storica sfavorevole, perché vediamo in essa che l’elemento più sfruttato e oppresso della società metropolitana e dei paesi terzi si rifiuta di farsi prendere impunemente a schiaffi o a bastonate, si rifiuta di farsi compattare da una politica metropolitana (più o meno) social-imperialista o, per le donne di colore, di farsi schiacciare senza batter ciglio sotto tale politica, e si attivizza. È questo il fatto positivo, e per nulla scontato! "Dalla pratica all’azione al riconoscimento dell’ideale del comunismo e dei suoi principi teorici": questo il metodo che una risoluzione della Terza Internazionale raccomandava di seguire nel lavoro di partito verso le donne.

Nelle masse viene per prima la pratica. Poi la lotta. Quindi tutto il resto, fino alla partecipazione cosciente alla rivoluzione sociale e alla vita di partito. Ciò vale, in generale, per il percorso di riscatto e liberazione di tutti gli sfruttati, ma vale in un modo speciale per le donne, proletarie e non, educate da sempre, dalla loro segregazione domestica e dalla loro atavica soggezione al maschio, alla passività, al fatalismo, all’auto-denigrazione, alla sfiducia in sé, e tenute dalla borghesia accuratamente fuori dall’agone politico. La citata risoluzione della Terza pone invece l’enfasi sulla scesa in campo del soggetto-donna, e sul dovere dei comunisti di favorire la sua piena partecipazione a tutti i campi della vita politica e sociale mediante la metodica della "agitazione attraverso i fatti"; il che "vuol dire innanzitutto azione per risvegliare l’iniziativa dell’operaia, distruggere la sua mancanza di fiducia nelle proprie forze trascinandola nel lavoro pratico", premessa ineludibile di tutti i passi ulteriori.

Tradiremmo questo nostro dovere sia affidandoci alla "spontaneità" del movimento, che è comunque una leva insostituibile, sia limitandoci a "predicare" e prendere le distanze dal movimento per quello che esso può e deve essere. Ogni esagerazione critica sullo stato del movimento -sia in riferimento al movimento delle donne, che in generale-, rappresenta una forma di spontaneismo, di idealismo alla rovescia. E la stessa cosa può dirsi per ogni pretesa di definire i compiti dei comunisti a prescindere da un’attenta considerazione di quello che è realmente il movimento, e dalle sue potenzialità. Certo, negli anni ‘20 i livelli dei nessi spontaneità-coscienza, movimento-partito stavano in ben altri termini che all’oggi, e il punto di ripartenza del lavoro di partito stava a un gradino più alto, sebbene sotto la scorza dello scontro armato per il potere si celasse una maggiore "immaturità" relativa, alla scala mondiale, delle trasformazioni socialiste. Oggi le cose si presentano, al momento della ripartenza, più complicate e arretrate, poiché il movimento di classe riparte senza una direzione di partito che sia vagamente commisurabile a quella esistente in quegli anni e con tratti che sono in molti settori "a-proletari" o "pre-proletari", ma il senso di marcia potenziale è forse oggi più che in passato liberatorio in senso globale, se commisurato all’antagonismo socialismo-capitalismo più che, in modo apparentemente ultra-classista ma in realtà riduttivo, a quello proletariato-borghesia.

Il nostro intervento

È in base a questo indirizzo di fondo del nostro lavoro, lo stesso di sempre, che siamo intervenuti nelle dimostrazioni della Marcia 2000, chiamando le partecipanti a consolidare il passo in avanti compiuto con il ricorso all’azione diretta, perché la liberazione delle donne può essere opera solo delle donne stesse, e a prendere atto che le sfruttate possono trovare veri compagni di lotta solo nel proletariato e nell’universo degli sfruttati a cui appartengono.

"Il destino delle donne e quello di tutti gli oppressi -abbiamo detto loro- sono legati a doppio filo: un nemico comune ci schiaccia, il capitalismo, e noi possiamo avanzare e vincere nella lotta contro il capitalismo solo unendo e fondendo le nostre forze". A cominciare dall’unità e dalla fusione delle donne del Sud e del Nord, che passano attraverso il riconoscimento di ciò che è comune tra loro; attraverso la denunzia della mistificazione che vuole la donna occidentale libera dalla schiavitù domestica e sessuale e della gemella mistificazione neo-colonialista che vuole le donne del Sud del mondo vittime consenzienti di culture e di rapporti familiari arcaici, che nulla avrebbero a che fare con la rapina e lo sfruttamento imperialista; e soprattutto attraverso "la lotta implacabile delle donne e del proletariato del Nord del mondo contro il nuovo colonialismo, gli stati, i governi, le istituzioni finanziarie dell’imperialismo".

Abbiamo poi chiamato le donne in marcia a fare un altro passo in avanti nel loro rapporto "con" l’Onu, identificandolo come l’altra faccia del Fmi, il potere che legittima e in qualche modo gestisce la globalizzazione della violenza capitalista-imperialista (Corea, Congo, Vietnam, Palestina, Iraq, Somalia, Jugoslavia) tanto quanto il Fmi acutizza con le sue "ricette" la globalizzazione della povertà. E, citiamo ancora dal volantone che abbiamo distribuito in migliaia di copie, con ottima accoglienza, a Washington, New York e Bruxelles, abbiamo sollecitato le manifestanti (e i manifestanti) a sviluppare la loro iniziativa in direzione della massa delle donne e "in direzione e dall’interno del proletariato industriale e dei lavoratori delle città e delle campagne di tutto il mondo, di cui la larga maggioranze delle donne è parte", portandovi con fiducia le ragioni della propria lotta e facendola vivere come parte costitutiva della lotta contro un sistema capitalista che schiaccia chi vive del proprio lavoro.

"Rivolgiamoci anche agli sfruttati di sesso maschile -abbiamo detto loro- mostrandogli che possono soltanto guadagnare dalla ‘perdita’ dei loro minimi privilegi ‘padronali’ (da schiavi) di cui godono sulle ‘loro’ donne. E a mezzo di questa unione mondiale delle donne e del proletariato, apriamoci il cammino verso dei rapporti sociali riscattati dallo sfruttamento di classe, dalla riduzione a merce degli esseri umani, dall’oppressione di sesso, verso una generale ed egualitaria cooperazione sociale mondiale fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e sull’auto-attivazione delle masse, quale è e sarà l’autentico comunismo".

La preparazione della Marcia ci ha anche visti impegnati, e da soli, a portarne avanti le ragioni dentro le fabbriche, cosa che consideriamo essenziale e vero e proprio punto di discrimine concreto tra il nostro e l’altrui (smorto) "partecipazionismo". Non si tratta, con questo, di propagandare una manifestazione di lotta "all’esterno" del "suo" ambito, ma di rivendicare, da un duplice punto di vista, il senso stesso della lotta delle donne in quanto parte integrante della generale questione proletaria e socialista.

Si tratta di dimostrare ai lavoratori delle fabbriche che questa lotta non è qualcosa di estraneo ai loro interessi, neppure da un punto di vista, se vogliamo, strettamente immediatistico, economicista. Le stesse condizioni salariali e normative di fabbrica non possono essere adeguatamente difese a prescindere dalla lotta di emancipazione delle donne, che non sta "fuori" o "a parte" del recinto di fabbrica, ma vi è coinvolta e lo coinvolge a misura che si tratta di un’unitaria lotta contro il sistema generale dei rapporti economico-sociali capitalisti che, insieme, schiacciano il proletariato della (e nella) fabbrica ed il proletariato tutto (con la sua "metà del cielo" femminile) nella società globalmente intesa. La scesa in campo delle donne, foss’anche solo contro determinati effetti "particolari" attinenti al proprio "genere", quando è veramente una lotta, contribuisce di per sé a limare le unghie del capitalismo, con dirette conseguenze pratiche anche sui "particolari", limitati, rapporti di fabbrica. Il proletariato delle fabbriche (e qui intendiamo riferirci soprattutto al proletariato maschile) deve sapere che esso non potrà essere oggi meno schiavo del padrone e pienamente libero domani senza che si istituisca una piena e paritaria cooperazione tra i vari "momenti" di lotta di tutti gli sfruttati contro tutti gli aspetti, combinati e diseguali, dello sfruttamento capitalistico stesso. Di qui la necessità (non diciamo il "diritto", che dev’essere conquistato) di quello che impropriamente si definisce di solito "il proletariato", e che noi chiamiamo piuttosto: la sezione principale, il cuore centrale dell’antagonismo di classe, di ergersi a punto di riferimento e guida di una lotta qual è, e più dovrà essere, quella del proletariato, in senso ampio, femminile. La sordità, l’indifferenza, il ritardo -nel migliore dei casi- del proletariato di fabbrica attuale rispetto a questa questione è l’altra faccia della sua complessiva "nullità politica" (per dirla con Engels), e per uscirne fuori ad esso compete non solo di riprendersi le proprie armi "dentro la fabbrica", ma di farlo a tutto campo nella società.

D’altra parte, con questo intervento, noi diciamo alle donne che scendono in lotta che non è pensabile che tale lotta possa chiudersi in sé, nell’ambito, del pari ristretto ed impotente, della sola problematica di "genere", ma che essa deve aprirsi al complesso dei rapporti sociali determinati (e schiacciati) dal capitalismo, li deve globalmente aggredire contando sull’insieme delle proprie forze antagoniste, di cui il proletariato di fabbrica, per l’appunto, rappresenta l’asse centrale. Ogni femminismo chiuso in sé stesso, anche il più "materialista" ed "estremista", non potrebbe che ricadere nell’isolamento e, con ciò, nell’indebolimento delle complessive forze di emancipazione sociale su cui l’insieme degli sfruttati deve contare. Ogni femminismo di tal fatta, così come ogni operaismo speculare, non farebbe che riflettere al proprio interno, al livello di ideologia e di prassi concreta, l’opera di divisione del nostro campo dettata dal capitalismo. Ecco perché le donne devono bussare alle porte del proletariato di fabbrica, anche, e diremmo soprattutto, quando questo si dimostra sordo e muto in materia di lotta femminile: perché esso è (non per divina investitura, non per virtù autodefinite a priori, ma per la sua oggettiva condizione sociale di classe produttrice di tutta la ricchezza della società) l’agente posto nella condizione di poter spezzare definitivamente l’infame meccanismo che segrega, torchia, schiaccia e inferiorizza le donne in quanto parte, doppiamente oppressa, dell’insieme unitario degli sfruttati. Non si tratta, quindi, di suggerire alle donne di delegare la "propria" lotta a "qualcun altro", ma di battersi per la ricomposizione del fronte di classe di cui sono parte, richiamando, all’occorrenza, col massimo fraterno vigore i sordi a sentire ed i muti a parlare.

Non abbiamo nessuna remora a spingere oltre questo discorso sin dentro la stessa organizzazione comunista, ché essa non gode di alcuna speciale investitura in materia, ad onta della sua speciale posizione nella piramide strutturale che va dalla classe al partito, dalla situazione immediata alla rivendicata scienza marxista.(E ciò che diciamo per essa ha valore -crediamo- al di là di essa, per le forze e i singoli che intendano rapportarsi da comunisti a questo movimento.)

Con l’abituale franchezza, Lenin diceva di molti compagni della Terza Internazionale e dello stesso partito bolscevico: gratta il loro punto sensibile, la loro concezione della donna, e "troverai un filisteo". Anche il (futuro) miglior partito comunista avrà il suo molto da insegnare ad un movimento quale quello delle donne, per guidarlo veramente sulla via della lotta per il socialismo, a patto di accoglierne sino in fondo, sin dentro le sue più intime fibre, e non solo a livello di astratta dichiarazione di principi, le istanze storico-sociali da cui esso trae origine e sulle cui basi cerca (e può trovare, col partito) la propria conseguente strada. Non dimenticheremo mai che un partito, o un "capo", "più che inventare, rivela la massa a se stessa e fa sì che essa si possa riconoscere sempre meglio nella sua situazione rispetto al mondo sociale e al divenire storico, e possa esprimere in formule esteriori esatte la sua tendenza ad agire in tal senso"; che partito e "capi" "sono quelli che meglio e con miglior efficacia pensano il pensiero e vogliono la volontà della classe", per ripetere le parole con cui Bordiga commemorava Lenin nel ’24 illustrandone la funzione storica. Tra partito e classe, tra scienza di partito e movimenti di classe, esiste questo rapporto dialettico, il che implica sempre una reciproca trasmissione, un reciproco "arricchimento". E noi, militanti "di partito", pretendiamo di aver qualcosa da insegnare proprio perché sappiamo anche di aver molto da imparare quanto al pensare il pensiero e volere la volontà delle masse.

Retrospettivamente, potremmo anche stabilire che nello svolgere i compiti di partito sopra richiamati non sempre lo abbiamo fatto al meglio, con la dovuta chiarezza e la dovuta decisione a tutto campo. È proprio così, non diversamente, peraltro, da quanto è già accaduto in altri ambiti del nostro lavoro. Le difficoltà oggettive ed anche soggettive attuali (non potendosi slegare le prime dalle seconde) ci hanno, in qualche caso, portato a debolezze nell’intervento. La cosa si può facilmente capire. Nell’isolamento dettato dalla situazione italiana in particolare, con un fronte di battaglia proletario ridotto ai minimi termini, l’erompere del movimento di lotta delle donne cui ci siamo rapportati, ha comportato necessariamente un doppio ordine di difficoltà: quella, primordiale, ma essenziale, di avere un’esatta cognizione delle caratteristiche, della portata e delle contraddizioni (certamente!) di questo movimento "piombatoci addosso", in qualche modo, dall’esterno e all’improvviso (anche se, sicuramente, non dall’esterno rispetto alla nostra concezione dello scontro sociale: ma questo è un discorso un tantino diverso!); in secondo luogo, quella di non riuscire sempre, di conseguenza, a far corrispondere la nostra posizione teorica alle necessità concrete di un intervento in grado di incidere al meglio nel movimento per portarlo più oltre, com’è compito di partito (cosa che si può fare solo saldando coerentemente alla teoria un conseguente intervento, passo passo, nel movimento in tutti i suoi concreti passaggi per cogliere l’anello superiore della catena, come Lenin insegna).

In qualche modo, può esser vero che siamo stati molto a "guardare" prima (o a scapito?, bah!) di intervenire "in proprio". Ebbene sì, abbiamo molto osservato e studiato, perché questo era necessario, perché nessun anello può essere conquistato nel movimento se neppure si vede cosa il movimento sia e come proceda lungo una strada determinata e concreta, ed abbiamo scartato "per principio" la malaugurata idea diffusa in certi ambienti "puristi" di "intervenire" a freddo, dall’alto di considerazioni generali sull’Idea del Socialismo e sui suoi Sacri Principi astraendo da un movimento che, in prima istanza (che non significa surroga dei principi e della teoria), avevamo il dovere di studiare ed intendere. Dopo di che può darsi anche che avremmo potuto far di meglio.

Lo faremo senz’altro, imparando anche dalle nostre debolezze, se del caso, continuando ad usare e perfezionando il nostro metodo di sempre, che non è in discussione. Non ci mancano di certo né la coscienza né la volontà di svolgere il ruolo "da partito" che ci è assegnato, e la digestione del pasto che, in questo caso, abbiamo consumato ci permetterà di farlo meglio in futuro. Ma non siamo tanto stolti da aspettarci la soluzione di tutti gli inghippi da noi e da noi soltanto, in quanto elemento soggettivo capace di ogni fatto o… misfatto. Le nostre possibilità di azione, seppur certamente legate alla nostra soggettiva coerenza dottrinaria e ad una conseguente corretta prassi militante, dipendono da qualcosa che noi non siamo, di per sé, in grado di creare o dettare, e cioè dall’estensione di tutta una serie di movimenti antagonisti in grado di "trasmettersi" e comunicare tra loro, e rendere così (e solo così) possibile la trasmissione ad essi della nostra dottrina e del nostro indirizzo organizzativo.

Tutto si può dirigere tranne un traffico inesistente. Noi ci aspettiamo dal futuro un traffico intenso che porrà, ne siamo certi, ulteriori ed anche più complicati (e assai più promettenti!) problemi ai poveri vigili urbani della rivoluzione che pretendiamo di essere. E questo perlomeno sappiamo con esattezza: che la nuova Internazionale del futuro non sarà soltanto quella "del proletariato e dei popoli oppressi uniti", ma anche e pienamente, come non mai in un passato pur glorioso, delle donne sfruttate in un unico fronte. Come? A quali condizioni? A che prezzi? Su questo stiamo lavorando, oggi, con quel qualche elemento in più che ci è stato dato dallo sviluppo delle lotte e dal nostro addestramento all’interno di esse.


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