Auto-organizzazione o organizzazione comunista? 
Una falsa alternativa!


                                      

Partito? Sì, abbiamo detto: Partito. E siamo pronti a discuterne fraternamente con tutti quei militanti, soprattutto se giovani e affacciatisi da poco alla lotta, per i quali questo termine evoca sinistri spettri e paure. Lo spettro, al fondo, di un’organizzazione burocratica che si cala dall’esterno e dall’alto sul movimento di lotta, per metterlo sotto controllo e giocarlo in una partita riservata ai soli "poteri istituzionali", quand’anche possa trattarsi di istituzioni "contrapposte", dalla cui conduzione il movimento stesso, in particolare i "militanti comuni", verrebbero così espropriati. A questo spettro (che non è nato, lo sappiamo, nella loro testa, ma vi è pervenuto come lascito della sinistra vicenda dello stalinismo) essi oppongono la prospettiva dell’auto-organizzazione dal basso come la sola capace, a loro avviso, di assicurare il massimo di libera e spontanea partecipazione delle masse, e di essere una cauzione contro quel burocratismo e quell’istituzionalismo che realmente, in virtù degli interessi che esprimono, uccidono la lotta.

E dunque: auto-organizzazione o organizzazione comunista? L’alternativa che la domanda pone è, per noi, falsa. I due termini, infatti, non sono in opposizione tra loro, ma dialetticamente connessi; o meglio: possono esserlo e lo sono, a misura che l’auto-organizzazione sia veramente tale, nata e costruita alla base, da e per coloro che vi partecipano collettivamente, ed a misura che l’organizzazione politica che si definisce comunista lo sia veramente nella sua fisionomia "separata", ma dentro il movimento stesso, cui si rivolge per dirigerlo e di cui è parte. Per contro, ci può essere un’auto-organizzazione tale solo di nome, ma di fatto contraria agli stessi interessi cui si richiama (si pensi alla recente, finta e tragica "auto-decisione" secessionista di Slovenia e Croazia), così come può benissimo esistere un’organizzazione sedicente comunista che col comunismo, cioè con le ragioni autentiche di emancipazione delle masse, non ha nulla a che fare (gli esempi non mancano). Non si tratta di formule, ma di contenuti di uno scontro tra classi sociali e sistemi, di un movimento reale di emancipazione.

Il magnifico mondo del G-8

Il debito dei paesi poveri

Negli ultimi vent’anni, i più segnati dalla mondializzazione finanziaria, il debito dei paesi poveri è raddoppiato e, poiché non è raddoppiata la loro produzione, il suo peso s’è ulteriormente ingigantito.

Lo strangolamento di questi paesi a opera degli stati-usurai dell’Occidente è proseguito anche con la farsa della "cancellazione" dei debiti inesigibili, che i suddetti stati-usurai hanno usato per imporre ai paesi taglieggiati la totale apertura alle multinazionali, la privatizzazione di quel che resta di statale, la pratica distruzione degli apparati scolastici e sanitari, grossi acquisti di armi. Per me, ha detto padre Zanotelli, tutto ciò "è un genocidio pianificato. Altro che condono dei debiti!". Anche per noi. E un genocidio pianificato si può fermare solo con la lotta frontale contro i poteri che lo pianificano, non certo con lacrime e preghiere affinché i ricchi si convertano e si auto-riformino.

I salari operai in Occidente

In Europa i salari operai tendono, negli ultimi anni, a diminuire come reale potere d’acquisto, insieme con il tasso di sindacalizzazione dei lavoratori. L’identica tendenza è riscontrabile da un ventennio negli Usa, dove, affermatasi con la reaganomics, non si è, peraltro, arrestata negli anni del clintonismo. In La dittatura del capitalismo, E. Luttwak, non esattamente un marxista, ammette che "negli Usa le retribuzioni hanno iniziato a convergere lentamente con quelle del Terzo Mondo", che ormai la forza lavoro americana, un tempo la più pagata del mondo, "costa poco", che la povertà è entrata ben dentro il corpo del proletariato industriale e terziario, che la mobilità discendente è, tra i lavoratori, più estesa di quella ascendente, etc.

Il capitalismo globalizzato, insomma, fa passi avanti a misura che respinge indietro la classe lavoratrice.

Se questo movimento si dà, così come vediamo che comincia a darsi a scala mondiale, esso ha per sua natura bisogno che la gente si organizzi dal basso, anche a partire da un infimo gradino di vita comunitaria, per reagire comunitariamente ad un unitario nemico, per difendere comunitariamente i propri interessi vitali e dare ad essi una prospettiva liberatrice. In questo si può partire anche da un solo problema, anche da un solo villaggio. Ma, nel suo stesso corso, il movimento -quando esso sappia reggersi sulle proprie gambe- deve riconoscere che il singolo problema fa parte di un unico blocco di problemi, che il singolo "proprio" villaggio fa parte del villaggio globale. È questo il punto: la necessità di una azione concorde, organizzata, pianificata, tra tutte le forze del movimento reale anti-capitalistico, affinché esse, come diceva Marx, sappiano agire come un tutto nei confronti delle "singole" questioni, e non invece come "singoli" segmenti che partecipano al tutto del movimento di classe difendendo, contro le spinte all’unificazione degli sfruttati, la propria "singolarità". Del resto, come si accennava prima, la partecipazione al movimento "anti-globalizzazione" di tante diverse realtà, e anche di tanti diversi indirizzi di lotta, cos’altro prova se non che esiste, nei fatti, l’esigenza di darsi un’unità d’azione e, diciamo noi, di indirizzo in quei "mille diversi movimenti" che i grandi del G-8 vorrebbero mantenere separati? E cos’altro è questa esigenza se non l’esigenza del partito?

Il punto di partenza può anche essere, oggi, quando si è semplicemente ad uno stadio embrionale e del movimento anti-capitalistico e del partito di classe, quello di tante singole realtà che mantengono tra loro un rapporto federativo. Ma più la lotta si intensificherà e si estenderà, più risulterà chiaro che il problema che abbiamo di fronte, al fondo, è uno, pur nei suoi mille differenti aspetti fenomenici; che il nemico è uno (non si parla forse ormai correntemente di capitalismo globale e non si considerano forse i G-8, giustamente, come un’unica entità nemica?); che l’obiettivo finale è uno, per cui un movimento reale che cresce deve procedere nel senso dell’unificazione, e quest’unificazione non può darsi che intorno alla prospettiva comune del socialismo.

Noi non diciamo ai nostri interlocutori: "voi dovete partire da qui". Ci limitiamo a indicare loro un percorso organizzativo e scientifico (cioè di conoscenza adeguata della realtà che siamo chiamati insieme ad affrontare) che costituisce una possibilità e una necessità intrinseca allo scontro in corso. Il percorso in direzione di un movimento e di un partito unitario per l’intero fronte di classe mondiale che non è un parto della nostra testa "dogmatica", ma un processo tangibile perfino nei timidi segnali di ripresa dello scontro di classe a scala internazionale in atto.

Del "popolo di Seattle" che è poi "ricomparso" anche a Sidney, a Praga, a Nizza, a Napoli, a Porto Alegre, a Zurigo, a Quebec City, a Göteborg, si è già detto. Degli scioperi operai di un certo peso degli ultimi anni (i portuali di Liverpool, gli operai coreani, gli operai della GM e quelli della Renault di Vilvorde, i dipendenti della statunitense UPS, i minatori rumeni e così via) sarebbe agevole mostrare come tutti indistintamente abbiano avuto una forte proiezione internazionale (una dimensione centrale nel processo di unificazione della classe), e anche come tutti abbiano avuto insieme una forte proiezione a sollecitare e raccogliere intorno a sé il consenso e il sostegno "popolare" (che poi è l’altra faccia dell’unificazione). La Marcia delle donne, poi, si è essa stessa auto-concepita come marcia mondiale, e tale è stata nei fatti, ponendo per giunta, senza che le si potesse certo chiedere di risolverlo, il tema di un rapporto più stretto e solidale, nel contesto della mondializzazione della "solidarietà", tra le donne del Nord e del Sud del mondo. Hanno avuto questa medesima matrice anche, per disgraziatamente modeste che siano state, le reazioni alle aggressioni dell’Onu e della Nato all’Iraq e alla Jugoslavia.

Ma l’esempio più "sorprendente" di questa richiesta riemergente di mondializzazione, cioè di centralizzazione programmatica e organizzativa, delle resistenze e delle lotte anti-capitalistiche ci viene dal mondo contadino. Dai contadini senza terra dello Zimbabwe, la cui pur limitata azione di riappropriazione delle terre ha scosso l’intero continente africano, mettendolo di fronte alla necessità di riprendere la guerra di liberazione anti-coloniale. Dai braccianti e dai contadini indiani, la cui battaglia contro le multinazionali dell’agro-alimentare e delle bio-tecnologie del calibro della Monsanto ha raggruppato attraverso i tanti stati e le tante disparate "realtà locali" dell’India un movimento di centinaia di migliaia di dimostranti, che ha avuto un’eco mondiale. Dai poverissimi campesinos del Chiapas, la cui testarda difesa delle proprie comunità dallo schiacciasassi delle grandi imprese statunitensi deve a questo fattore strutturale, a sé stessa, alla solidarietà incontrata nel proletariato messicano, ben più che alle messinscene teatrali d’un Marcos e a quelle da avanspettacolo dei nostrani marcolini, l’internazionalizzazione del loro problema "locale". Dai Sem terra del Brasile, infine, che hanno lanciato esplicitamente all’intero mondo degli sfruttati agricoli l’appello "contadini di tutto il mondo unitevi".

Il perché strutturale di questa "sorprendente" tendenza l’ha spiegato efficacemente E. Masi sul manifesto (del 6 maggio) occupandosi delle resistenze dei contadini cinesi. Ai contadini (non solo cinesi) è stato sottratto il controllo della produzione agricola. Il processo è iniziato separando la coltivazione dalla trasformazione, trasporto e commercializzazione tanto dei fattori produttivi, quanto dei prodotti, e si è completato con l’utilizzo delle bio-tecnologie e l’assegnazione della proprietà degli ogm alle grandi imprese fornitrici. "Grazie alla mondializzazione, scrive la Masi, i contadini cinesi tornano necessariamente in comunità solidale con i loro confratelli di ogni altro paese, a causa degli interessi comuni e per la presenza di un comune nemico. (...) Il cammino verso una nuova Internazionale sarà lungo, data la disparità del tenore di vita dei diversi paesi, ma il capitale stesso favorirà un tendenziale livellamento. Lo hanno compreso alcuni movimenti in India e in America latina…".

Qui tornano tutti gli elementi che ci siamo sforzati di richiamare finora. La estensione mondiale del dominio reale "totale" del capitale su tutte le forme di lavoro e di produzione, condizione e leva della sua crescente centralizzazione alla stessa scala. La progressiva estensione e il progressivo "approfondimento" del processo di espropriazione dei produttori diretti, anche di quelli formalmente indipendenti e finanche di quelli con una certa quota di proprietà. La proletarizzazione, interna ed esterna all’agricoltura, di una massa crescente di ex-contadini (altro che scomparsa del proletariato!). L’emergere "della possibilità e della necessità di un movimento unitario e di un partito unitario" alla scala mondiale, poiché mondializzato, cioè concentrato e centralizzato in poche grandissime imprese mondiali e super-stati, è anche il capitale "agricolo", è il capitale stesso, nemico unitario delle masse contadine dei continenti di colore e "perfino" di quelle metropolitane non proprio nullatenenti, eppure sempre più spesso indotte a protestare contro i burocrati del grande capitale alloggiati a Bruxelles.

Novità assoluta? No. Un primo giro di questa giostra c’era già stato ad inizio secolo, e allora, puntualmente, una Internazionale contadina venne ad affiancarsi e a dare manforte, purtroppo per un tempo troppo breve, all’Internazionale proletaria comunista sulla cui scia, e sotto la cui direzione, era nata. Le forze per un secondo giro cominciano magmaticamente a far capolino. Questa volta a un grado di maturazione che favorirà la fusione dell’auto-organizzazione delle masse con l’organizzazione comunista.