Batterci contro il capitalismo 
con la violenza o con la "non violenza"?
Con la forza collettiva organizzata degli sfruttati.


Che tipo di lotta? Pacifica, non violenta o che altro? Anche questo è un argomento che assilla il movimento, e che i mass media stanno facendo di tutto e di più per porre come la discriminante centrale su cui deve esprimersi il movimento stesso. Per quel che ci riguarda, lo facciamo senza fatica.

Cominciamo con il premettere che nessuno di noi desidera di per sé la violenza. Diceva Engels: se al comunismo si potesse passare pacificamente, per libera e consenziente dismissione da parte delle forze del capitale, i comunisti sarebbero i primi a felicitarsene. Ma la questione è proprio questa: il capitalismo non conosce regole "democratiche", e tanto meno conosce la non violenza, che gli è costituzionalmente estranea. Conosce, al contrario, unicamente la propria forza, e non è in alcun modo disposto a rinunziarvi perché "l’opinione pubblica" non l’approva. Forza contro forza, questo è il suo motto (essendo la sua filosofia sociale e politica quella dell’homo homini lupus); e l’acutizzarsi degli antagonismi sociali che esso stesso crescentemente crea, dà all’uso effettivo di tale forza dimensioni sempre più parossistiche.

Basterà pensare alle due immani carneficine mondiali del ventesimo secolo (frutto della contesa inter-imperialistica per la spartizione -via guerra, per l’appunto- del mercato mondiale), alla terribile sequenza di guerre "inter-etniche" o "locali" attizzate ad arte dagli stati usurai che dominano la terra, alle devastazioni umane e ambientali dagli stessi inflitte con ogni genere di armi ai popoli ribelli (Libia, Corea, Congo, Vietnam, Nicaragua, Iraq, Jugoslavia, Palestina…), allo spaventoso accatastamento di atomiche degli scorsi decenni (e al loro cinico uso contro il popolo giapponese), agli ultimi micidiali ritrovati all’uranio impoverito, e si avrà la misura di quanto suoni immonda sulle labbra dei grandi assassini del G-8 la pretesa di essere i tutori internazionali della "pace", della "non violenza" e del "diritto" da proteggere dalla "cieca aspirazione alla violenza" dei contestatori.

Il magnifico mondo del G-8

Tolleranza-zero

Abbassamento dell’età in cui si è imputabili a 14, 13 e perfino 10 anni (in Texas è stata proposta la sedia elettrica per i maggiori di 11 anni). Carceri per ragazzini sotto i 14 anni. Lotta senza quartiere alla mendicità, alle scritte sui muri, ai comportamenti "anti-sociali" dei senza tetto, multe ai genitori dei figli che marinano la scuola. Generali come provveditori agli studi a Washington e Seattle. Poliziotti in ogni scuola. Classi e scuole segregate per ragazzini violenti. Catene ai piedi e alla vita nei penitenziari (come in Alabama). Kampi di detenzione per richiedenti asilo e immigrati "clandestini". Carceri studiate per annientare psicologicamente i reclusi. Allungamento dei tempi di detenzione preventiva. Allargamento delle decisioni arbitrarie verso i lavoratori immigrati. Centinaia di arresti ad ogni manifestazione "anti-globalizzazione"…

Così, con la tolleranza-zero, la società del capitale, la più violenta società mai esistita -la sua prima basilare forma di violenza essendo lo sfruttamento spietato del lavoro-, reagisce alla disgregazione e alla violenza che essa stessa produce pretendendo da noi il giuramento di non violenza. La sola risposta adeguata del movimento può essere: "tolleranza zero", verso la società del capitale e la sua repressione!

L’uranio impoverito

L’uranio impoverito è l’ultima arma di distruzione adoperata dai signori della guerra del Pentagono, della Nato e di Israele nelle loro infami aggressioni contro i popoli ribelli dell’Iraq, della Jugoslavia, della Palestina. Un’arma quanto mai letale che diffonde i germi della morte per un tempo indefinito.

La redazione del Che fare, insieme con il Centro di documentazione W. Wolff, ha edito in italiano un importante testo di denuncia di questo ennesimo crimine dell’imperialismo amante e custode della "pace". Leggetelo, e traetene le conseguenze.

Le perversioni sessuali

Non basterebbe l’intero giornale a far la descrizione delle perversioni che si diffondono nella società dei G-8. Ne citiamo, allora, solo una: la pedofilia.

Sconosciuta come industria fino agli anni ’70, essa è nata ed esplosa sull’onda della guerra Usa contro il popolo vietnamita: ai bravi killer a stelle e strisce si davano licenze-premio con annesso stupro etnico di bambini-bambine filippini e thailandesi.(*) Da allora il fenomeno è esploso. L’epicentro è in Occidente dove la massa dei "clienti"-violentatori è rapidamente crescente, grazie anche ai buoni uffici delle tante agenzie per il "turismo sessuale". Risultato (provvisorio): "10 milioni di bambini nel mondo, dai 6 ai 14 anni, e qualche volta ancora più piccoli, arruolati nell’industria del sesso e, ogni anno, un milione segue la stessa sorte". (**)

Questa è una società putrescente, la cui struttura materiale e morale va demolita fino in fondo. Fino alla sua ultima pietra.

* O’ Grady, Schiavi o bambini?, Ed. Gruppo Abele
**
Rivista del volontariato, gennaio 1996  .

In realtà, il solo "diritto internazionale" che il capitalismo conosce è quello della "libera circolazione" dei capitali e dei profitti garantiti dalle proprie cannoniere, il diritto internazionale del brigantaggio. È il diritto che esso esercita oggi in America Latina, in Africa, in Medio Oriente, dovunque, e domani si appresterebbe a esercitare contro la "concorrenza" di Cina e Russia, contro tutto il mondo che non si piega al dominio delle sue centrali occidentali. Non solo lacrime e fame ha sparso e sparge nell’universo mondo il capitalismo globalizzato, ma sangue, anche se qualcuno, di questo stesso nostro movimento, sembra non accorgersene, o non intende rispondervi (forse perché nei paesi colpiti non c’è "vera democrazia", e quindi non si ha "diritto" di replica, per cui la sorte di milioni di sfruttati votati al massacro "non ci riguarda"…).

Ma se il capitalismo globale, con le sue macchine statali e in particolare con alcuni super-stati, quello yankee in testa a tutti, dispone della più organizzata macchina di violenza e per la violenza contro gli oppressi che sia mai stata edificata da una classe sfruttatrice; e se esso non possiede il minimo scrupolo ad usarla alla bisogna; come, allora, è pensabile di poter fermare questa macchina? I comunisti hanno una sola risposta: opponendo forza a forza, violenza a violenza. In una parola: con la rivoluzione degli sfruttati, la rivoluzione socialista, contro il capitale.

Questo non significa che noi, qui e ora, propugniamo per principio e come metodo azioni violente singole contro questo o quel "simbolo" del potere. A noi non interessa colpire i simboli (anche se rifuggiamo da ogni condanna verso tali azioni, quando vi siano); a noi interessa colpire il tronco. Non siamo qui per dare delle manifestazioni simboliche di forza, ma per unirci ed allargare il nostro fronte, per chiarire ad esso i propri scopi, per accumulare, insomma, le nostre forze in piena indipendenza e contrapposizione con quelle del capitale. Noi non cerchiamo lo scontro in una situazione in cui esso ci sarebbe sfavorevole, non intendiamo "testimoniare" la nostra esistenza, ma rafforzare il nostro esercito di classe. S’intende: senza farci in alcun modo intimorire dall’avversario, senza ripiegare di fronte a esso qualora ci venga contro con i suoi apparati di repressione, ma in maniera sempre più organizzata e collettiva, nelle scaramucce di oggi e in previsione delle decisive lotte del domani.

Il vero risultato attuale cui miriamo è il rafforzamento del nostro fronte. Come diceva Marx, il vero risultato delle lotte di classe, quando non è immediatamente in gioco il potere, è la crescita dell’unità e della compattezza del fronte di classe, la migliore cauzione per il futuro che ci attende.

Naturalmente, questo non significa affatto "pacifismo", oppure che il movimento debba respingere come estranee a sé stesso le manifestazioni "dimostrative" in nome di un proprio presunto "pacifismo non-violento". Una cosa è darsi una strategia ed una tattica di lotta, un’altra negare i principi stessi cui essa deve uniformarsi. Già a Seattle una parte dei partecipanti si è ritratta sdegnata dai singoli atti di "violenza" di un settore (foss’anche piccolo, ultraminoritario) del movimento in nome della non-violenza "di principio". Quale non violenza, di grazia? Quella del capitale, con la quale ci troviamo confrontati? O quella di un movimento che, di qui all’infinito, pretenderebbe di non usare altre armi che quelle della "manifestazione delle proprie libere opinioni"? Noi comunisti condividiamo parola per parola, a questo proposito, quello che ha scritto Mumia Abu Jamal:

"Molto può essere detto sui bistrattati anarchici che hanno sconvolto il centro della città, attaccando gli splendenti edifici del Capitale. La stampa (e anche una parte del movimento, n.n.) ha colto a volo l’opportunità di chiamarli "delinquenti" o "hooligans" coinvolti in "violenze". Ciò che manca nei servizi, ovviamente, è che quei giovani attaccavano la proprietà, non altri esseri. Nel frattempo, lo stato, attraverso la sua polizia, attaccava le persone, le prendeva a calci, le gassava, le picchiava e le incarcerava. Quale, ci si chiede, è la più grave forma di "violenza"? Ma, nel mondo proiettato dai media corporativi, la violenza dello stato non è vera violenza. Solo gli individui che non sono integrati nello stato, quindi, possono essere veramente violenti".

Le stesse cose si potrebbero scrivere circa i fatti di Göteborg. Ecco: la violenza che noi respingiamo per principio è quella del capitale e del suo stato. La violenza degli "individui" che si pongono contro di essa, invece, noi possiamo solo pensare, e volere, sottrarla alla sua "individualità", al suo carattere di esasperata manifestazione "individuale" per integrarla entro una forza ed una strategia collettiva, sociale. Che sarà, ed esprimerà, maggiore e decisiva violenza liberatrice, come non può esserlo il singolo "gesto individuale".