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dal mondo

IL CAPITALISMO CINESE TRA DUE FUOCHI


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Con i loro strepitosi indici d’incremento della produzione la Cina e il sud-Est asiatico ce la stanno mettendo tutta (col Vietnam ultimo aggregato -in spe- alla compagnia dei "dragoni") per infondere nel senescente capitalismo mondiale un elisir di lunga vita. E’ la nuova frontiera del capitalismo e dell’imperialismo.

Vuoi vedere che dobbiamo rassegnarci a un altro secolare rinvio della crisi rivoluzionaria? A quest’inevitabile quesito, demmo già dai tempi della Tien an Men una risposta negativa. E non per consolarci. Ma perché il neo-industrialismo cinese-asiatico di questa fine del XX secolo è, ai fini della stabilizzazione del sistema capitalistico mondiale, intrinsecamente bivalente. Da un lato, è stato ed è fonte d’ossigeno per il centro del sistema come profittevole sbocco per i capitali metropolitani; ma dall’altro sempre più immette nell’ecosistema euro-americano della inquinante anidride carbonica perché, con la sua esuberanza, si avvia a contendere ai capitali occidentali spazi di mercato crescentemente ampi (e diversificati), sia in Asia che fuori. Questo ciclo accumulativo rafforza con le capacità concorrenziali della Cina e dei paesi vicini minori anche le loro spinte "autonomistiche" rispetto all’Occidente. L’irruzione del "mercato mondiale" in Cina e in Asia, insomma, sta alimentando una sempre più pericolosa irruzione della Cina e dell’Asia sul mercato mondiale...

Il fattore-tempo comincia a giocare contro Stati Uniti & C. Essi non possono lasciare troppo altro spazio-tempo alla Cina (ci limitiamo qui ad essa) di procedere "liberamente" sulla via denghista, e -meno ancora- di apportarvi delle correzioni nel senso di una maggior "chiusura" e di un maggior accentramento interno. Per garantirsi gli attesi ritorni di sovra-profitti e, sopratutto, per ritardare sine die il minacciosissimo avvento d’una Cina grande potenza industriale-finanziaria, gli stati imperialisti debbono porre ad essa condizioni sempre più onerose. Condizioni che la borghesia cinese potrà sempre meno accettare e sopportare, in quanto ne bloccherebbero lo sviluppo, la esporrebbero a irrefrenabili forze centrifughe e farebbero esplodere in cataclismi a catena gli antagonismi di classe della società cinese (quelli che nel mistificatorio linguaggio di Mao diventavano contraddizioni in seno al "popolo").

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Stabilmente perturbato

E’ per questo che, pur con le inevitabili oscillazioni, il barometro delle relazioni tra Cina e USA (e l’intero Occidente) punta sempre più stabilmente al brutto, o per lo meno al perturbato. Stagioni serene, è certo, non ce ne saranno più.

Già l’ultima "crisi di Taiwan" ha segnato una escalation delle minacce statunitensi a Pechino. Davanti alle coste cinesi si é schierata una delle più massicce task force dispiegate dall’imperialismo yankee nel Pacifico dai tempi della guerra del Vietnam. E’ il "modello ’96 della diplomazia delle cannoniere", ha commentato soddisfatto il New York Times. E il portavoce della Casa Bianca ne ha spiegato il senso con parole estratte pari pari dall’antico lessico coloniale: "abbiamo interessi nel Pacifico, e li difenderemo attraverso mezzi diplomatici e militari".

Neppure era scesa la temperatura per quell’"episodio", e già Clinton piazzava un altro bel colpo alla "amica" Cina concludendo in aprile un’intesa col Giappone con la quale Tokyo si assume nuovi compiti di supporto militare alle armate americane in tutto l’estremo Oriente. Intesa di grandissima portata, anche perché è venuta a ridosso della decisione dei paesi dell’Asean di estendere la loro integrazione ai temi della "sicurezza", e dell’offerta del governo conservatore australiano di voler fare la propria parte nel "contenere" Pechino. E’ palese il tentativo dell’imperialismo USA di stringere una morsa militare intorno alla Cina. Un’attività che, afferma il Newsweek dell’1.4.’96, include, per il tramite della "Operazione Yellowbird", anche la preparazione ad Hong Kong di "proteste mordi-e-fuggi e di azioni di guerriglia" per l’anno 1997 e seguenti.

L’offensiva anti-cinese dell’amministrazione Clinton è molto aggressiva anche sul piano commerciale. Washington contrasta l’ammissione della Cina nel WTO (l’ex-GATT), e prepara sanzioni a tutela delle ditte statunitensi produttrici di CD insidiate dalle "ditte-pirata" gialle. E si va sul sicuro a scommettere che nei prossimi mesi ed anni vedremo campagne su campagne (a gettone) per i "diritti umani" e la "democrazia" in Cina da parte di un Occidente che brama di poterla, in forme nuove, ri-colonizzare e smembrare, imponendovi il proprio democratico e umanissimo knut.

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La Cina reagisce

Da parte sua, con una certa sorpresa dei partner occidentali adusi a trattare con governi terzi che si lascian calpestare come tappetini, Pechino dà a questi attacchi repliche sempre più decise. Nei giorni della "crisi di Taiwan", il suo governo apprese al mondo intero che tempeste di fuoco attendono quanti vorranno ingerirsi negli "affari interni" della Cina dando sostegno al secessionismo della "provincia ribelle" di Taipei (o ad altri secessionismi di continuo foraggiati da denaro occidentale: Tibet, aree musulmane dello Xinijang, etc.).

La "guerra di propaganda" ha avuto un altro picco di tensione dopo l’intesa Giappone-USA. Il quotidiano ufficiale Guangming ha messo in guardia tutti i paesi dell’area dalla "strategia globale militare degli USA", rammentando loro "gli orrori causati dai giapponesi nell’ultima guerra". Ma al di là della propaganda, la più incisiva replica cinese è arrivata col rilancio in grande stile dei rapporti con la Russia. Un rilancio che avviene su basi ben diverse da quelle proposte da Gorbaciov nel 1989. Allora il testa d’asino Mikhail andò a magnificarvi le ricette della perestrojka occidentalizzante e -con la Tien an Men occupata dallo studentame liberaldemocratico- ottenne l’effetto, forse non voluto, di aumentare le difficoltà della Cina senza poter alleviare quelle della Russia. Oggi Elt’zin, dopo aver liquidato gli estremisti del liberismo filo-occidentale alla Gaidar, vi si è recato per stringere con la Cina un patto globale, tanto economico quanto militare, che giova ad entrambi i paesi perchè esprime la loro comune, dichiarata intenzione di opporsi alle "mire egemoniche" degli USA.

Non a caso, con allarme statunitense (International Herald Tribune, 16 maggio ’96), pochi giorni dopo l’intesa con la Russia, la Cina ha replicato sul muso a Washington nel modo seguente: "nella disputa commerciale con voi ricorreremo alla rappresaglia immediata colpo su colpo; ne va della salvaguardia della sovranità del nostro stato e della nostra dignità nazionale; le sanzioni cadranno non sulle merci americane, ma su ciò cui più tenete: gli investimenti delle vostre multinazionali"...

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La sinistra europea è con l’imperialismo bianco.

Essendo tuttora fortissimo il flusso degli investimenti e delle imprese occidentali che si dirigono verso la Cina come verso la nuova California, è possibile (non sicuro) che per un pò tornino a prevalere toni meno bellicosi. Difficile, però, che durino a lungo...

In questa strisciante, sempre meno sotterranea, contesa tra la Cina "popolare" (cioè borghese) e l’imperialismo occidentale, la sinistra europea sta, con tutto il cuore, dalla parte dell’imperialismo. Non è che ce l’abbia in modo particolare con quei "musi gialli" con cui, in altri tempi, non mancò di civettare (a pro dei propri rispettivi capitalismi nazionali). E’ che ce l’ha a morte con tutto ciò che nei continenti di colore, si tratti di stati o di governi (borghesi), di movimenti piccolo-borghesi, ma -anzitutto e sopratutto- di proletari e di sfruttati, metta anche solo di un pò in discussione gli attuali equilibri mondiali fondati sul supersfruttamento e il saccheggio dei paesi extra-metropolitani. D’istinto "sa" che per non far chiudere qui completamente e definitivamente i margini di un sempre più fragile compromesso tra capitale e lavoro, è necessario che continuino a fluire dalla "periferia" al centro del sistema maree di plasma estratto dalle carni delle masse due, tre volte sfruttate dell’Asia, dell’Africa, del Sud-America. I "buoni" progressisti europei gareggiano in sciovinismo anti-terzomondiale con i peggiori arnesi della reazione storica. La loro specialità è fomentare la estraneità ed il disprezzo dei lavoratori bianchi verso i loro fratelli di colore per impedire la formazione di quell’esercito unitario del proletariato mondiale la cui comparsa suonerebbe rintocchi funebri sia per l’imperialismo, che per la sua appendice "riformista".

E non si tratta solo dei "destri" nella sinistra (i Fassino, i Foa, le M. Emiliani, etc.). Nel corso della crisi di Taiwan s’è letta sul manifesto (del 12.3.’96), tanto per dire, la seguente affermazione: "L’aggressività cinese (n.b.!), alimentata dal nazionalismo interno ma anche da un atteggiamento internazionale che è ben lungi dall’essere coerente (alias: deciso e duro come si converrebbe -n.), sta diventando temibile". Tale Angela Pascucci non si vergogna di scrivere su questo foglio "comunista" (??) che la fonte cui attinge per demonizzare le "tentacolari attività industriali" dell’esercito cinese è nientemeno che la CIA (avete letto bene!), cioè: una delle più criminali emanazioni del massimo complesso militare-industriale del mondo. Quello cui fa capo, per intenderci, più del 50% della produzione bellica mondiale.

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Un giovane gigante s’avanza: il proletariato cinese.

Nel contrasto d’interessi imperialismo occidentale-Cina i comunisti internazionalisti stanno invece, ed incondizionatamente, dalla parte del proletariato cinese. Già: in ultima analisi l’oggetto di questa contesa non è altro che l’appropriazione del lavoro non pagato sottratto agli operai e agli sfruttati cinesi.

Qui il rovescio della medaglia. Dal "miracolo economico" cinese non sortisce solo una dinamica potenza borghese bensì anche, con nostra somma sodisfazione, un secondo colosso: un proletariato sempre più numeroso (gli addetti all’industria in senso lato sono intorno ai 150 milioni), concentrato, molto giovane e però non sprovveduto né in fatto di teoria, né quanto ad esperienza di lotta passata (basti pensare alle insurrezioni operaie di Shanghai e Canton del 1927) e recente.

Esso sente sulla propria pelle sia la sferza dell’imperialismo (al 1995 si contavano in Cina almeno 16.000 imprese filiali di società multinazionali con 4 milioni di dipendenti), sia quella non più caritatevole della assatanata borghesia "privata" autoctona, sia quella di una borghesia di stato che è marxista-leninista quanto l’ex-presidente dell’IRI Romano Prodi. Nel torchiare questa classe con condizioni di lavoro e di vita che, sopratutto nelle "zone economiche speciali" di nuova industrializzazione, vengono definite unanimemente "dickensiane", capitale imperialista e capitale nazionale cinese convergono e gareggiano, spalleggiandosi a vicenda. Fabbriche tre-in-uno, insieme officine-dormitori-mense. Salari da un dollaro l’ora (ma anche meno: il salario medio urbano è di 440 yuan, 88.000 lire al mese). Orari non inferiori alle 10 ore giornaliere, spesso di 12 o anche più, ma -a differenza che nell’800- con cadenze continue "giapponesi". Protezione sociale per infortuni, malattie, licenziamento, etc.: zero. Lavoro minorile. Punizioni corporali. Condizioni di sicurezza inesistenti (nel solo Guandong, nei primi 6 mesi del 1994, le cifre ufficiali parlano di 19.000 mila incendi nell’industria, con 1.043 morti e oltre 2.000 feriti). Scioperi e sindacati, di fatto, fuori-legge o, questi ultimi, come sindacati di stato, operanti da organi di controllo politico-repressivo sugli operai (con qualche funzione assistenziale). Che grande scuola di lotta e di organizzazione di classe per decine di milioni di proletari in un paese-regime che continua a dirsi "socialista" e a vantare la sua particolare cura per la classe operaia!

E per tale sta funzionando. Il proletariato cinese. Ecco lo spettro, tutt’altro che spettrale, che inquieta insieme Occidente e mandarini "rossi"! Presente con sue riconoscibili, distinte, rivendicazioni sociali e politiche nei tre momenti topici della Cina post-rivoluzionaria (1957, 1967 e 1989); presente, con posizioni che nessuna delle frazioni del PCC potè far proprie, tant’è che in tutte e tre le circostanze il partito (non comunista) ritrovò maggior concordia proprio al momento in cui entrarono in campo i nostri (e per frenarne l’iniziativa); il proletariato cinese che dall’inizio degli anni ’90 ha intensificato le sue agitazioni in particolare nel Sud e contro i capitalisti stranieri, secondo "una linea in ascesa impressionante" (così Perspectives chinoises, luglio-agosto ’94), incrementandole ancora di un 73% nel 1995 (Il Sole-24 ore, 3.5.’96); questo proletariato sta arrivando a un punto di svolta nel suo rapporto con il potere costituito.

Il 1° maggio scorso, infatti, il governo mao-denghista di Pechino ha annunciato la soppressione, entro dicembre, del cosiddetto "impiego a vita" (la "ciotola di ferro" garantita) e la sua sostituzione generalizzata con l’impiego a termine. La "grande causa" (capitalistica) dello sviluppo economico ulteriore della Cina richiede alla "grande classe (che) brilla di coraggio e vigore" grandi sacrifici, "che il partito e il governo vorrebbero evitare, ma non sempre ci riusciranno": così il Quotidiano del popolo.

Sulla "necessaria" distruzione del "vecchio sistema economico", sulla "necessaria" privatizzazione dei rapporti di lavoro nell’industria di stato e nei servizi gestiti dallo stato (ferrovie, etc.), sui 20-25 milioni di "esuberi" da falciare nelle grandi imprese, insistono da anni il FMI e la Banca mondiale. Enti "egemonisti" per eccellenza, ma il cui dispotismo va bene anche a Pechino, evidentemente, se riguarda la classe operaia. Come che sia, a questo dunque storico, tale non solo per la Cina, ci si doveva prima o poi arrivare. E ci stiamo arrivando.

Il proletariato cinese, da sempre privo di qualsiasi potere politico foss’anche solo di co-gestione, si vede ora attaccato anche in quelle garanzie sociali che costituivano il prezzo pagato dal sistema "socialista" per ottenere il suo (passivo) consenso. La sfida alla quale è ora chiamato è quella con un mercato sempre meno regolato e "protetto", con un capitalismo con sempre meno orpelli "socialisti", non soltanto nelle "zone speciali" ma nell’insieme della Cina. Una sfida che esso dovrà accettare, poiché il congelamento dell’attuale situazione è precluso. In questo scontro esso dovrà e saprà superare l’attuale frammentarietà delle proprie risposte, le sue contraddizioni e ritardi (che molto dipendono dalle nostre contraddizioni e dai nostri ritardi), qualche sua illusione, anche in quei settori che hanno in qualche modo come salariati beneficiato dello sviluppo, e dotarsi infine di una propria organizzazione politica e sindacale realmente autonoma, anti-capitalistica e anti-imperialistica. Fuori dalla melassa paralizzante del "popolo" e della nazione, e perciò capace di essere davvero punto di riferimento rivoluzionario delle grandi masse povere delle campagne e degli sfruttati di tutta l’Asia.

Cina, India, Sud-Est asiatico: l’ultima frontiera del capitalismo e dell’imperialismo sarà, è già la nuova, immensa frontiera del proletariato internazionale e della rivoluzione socialista.

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