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SUL CONGRESSO DELLA CGIL


Indice

Un’esperienza feconda
Comincia un'urgente battaglia di classe
La CGIL non è riformabile

Emendamenti proposti dai militanti dell'OCI


Di materia per trarre un bilancio sulla politica sindacale gli ultimi anni ne hanno offerta parecchia. La concertazione ha rivelato tutto il suo vero significato di politica volta unicamente a moderare gli assalti padronali e governativi. Né potrebbe essere diversamente se l’obiettivo supremo cui aspirare è quello del rilancio dell’economia nazionale e delle imprese, conformandosi alle "leggi di mercato", e caricandosi sulle spalle la concorrenza tra "sistemi-paesi" e quella tra imprese. Ma che i lavoratori possano continuare a subire arretramenti senza reagire è impossibile. Così appaiono primi sintomi di come le risposte alle difficoltà i lavoratori possano ricercarle in quelle forze di destra che rappresentano, sul piano del programma, la versione più "estremista" degli stessi fondamenti della politica sindacale: difesa dell’impresa, dell’economia nazionale, subordinazione alla concorrenza con tutto quel che ne consegue (nord contro sud, disoccupati contro immigrati, ecc.).

Nelle tesi congressuali della CGIL di tale bilancio non v’è traccia alcuna. Né poteva esserci, la sottomissione delle direzioni riformiste alle leggi del mercato data da... quel dì.

Tentativi di bilancio non ve ne sono, però, neanche nelle tesi alternative (Alternativa Sindacale e Cara CGIL). Quella più pretenziosa -Alternativa Sindacale, più o meno in continuità con Essere Sindacato- si limita a proporre una lista di obiettivi, di rivendicazioni (scala mobile, riduzione d’orario, ri-riforma delle pensioni, ecc.). Nel puntare solo a una "lista della spesa" c’è un motivo "elettorale": più si tiene basso il dibattito politico, più si raccolgono voti. Ma c’è anche un motivo tutto politico: trarre un serio bilancio della politica sindacale, vuol dire sottoporre, inevitabilmente, a verifica anche tutta la linea della "sinistra" sindacale, mettendo allo scoperto la sua stessa incapacità di sciogliersi dagli identici nodi cui la maggioranza è ancorata: difesa dei lavoratori nell’ambito del "paese" (o, al più, in ambito europeo, per di più come semplice e vuota petizione), impossibilità di sottrarsi alla logica della concorrenza, nonostante le alte grida contro i suoi effetti devastanti, ecc.

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Un’esperienza feconda

Che si sviluppi una opposizione alla linea sindacale è cosa necessaria. Ma che l’impianto di A.S. possa costituire la premessa per una vera opposizione è del tutto illusorio. La decisione dell'OCI è stata, quindi, di dare indicazione ai propri compagni iscritti alla CGIL di presentare una serie di emendamenti (il cui testo è pubblicato nella pagina seguente) alle tesi di A.S., accettando di batterci nel suo ambito con l’assoluta identità politica di quelle posizioni.

Lo scopo degli emendamenti non era di cercare di correggere qui e là la linea di A.S. La loro impostazione è del tutto ostica a ognuna delle varie anime che la compongono (la critica più esilarante l’abbiamo ricevuta da Lotta comunista: "perché mai mettete in discussione tra i lavoratori le vostre opzioni strategiche?". Si sa come questi ortodossissimi leninisti pensino che i lavoratori possano, tuttalpiù, comprendere solo qualche rivendicazione economica. Povero Lenin del Che fare? che, al proposito, avvertiva come ogni economismo non possa che sfociare nel più supino riformismo!). Lo scopo era quello di partecipare alla campagna congressuale, con la possibilità di incontrare un gran numero di lavoratori, a cui proporre una versione ben più radicale della critica alla linea sindacale e alcuni elementi di programma sindacale e politico su cui è necessario e possibile costruire una inversione di tendenza a tutti i rischi di deriva cui, non questo o quel sindacato, ma tutto il proletariato è esposto.

I nostri compagni hanno, così, partecipato come relatori di A.S. a un centinaio di assemblee congressuali (in particolare a Como, Napoli e Torino), ovunque sostenendo unicamente l’impostazione di battaglia raccolta negli emendamenti, e chiarendo, ovunque, che il nostro scopo non era quello di raccogliere voti, né era quello di fare una battaglia interna ad A.S., ma era quello di porre all’attenzione di tutti i lavoratori, della maggioranza e della minoranza CGIL, come di tutti i non iscritti (la cui presenza è stata significativa in quasi tutte le assemblee), un bilancio serio della politica sindacale, una critica serrata dei suoi presupposti, e l’indicazione dei fondamenti su cui puntare per invertire la rotta: autonomia dal capitalismo e unità di classe, dentro e fuori i confini nazionali, con le conseguenze che ciò comporta di lotta senza mediazioni al federalismo, di unità con i lavoratori immigrati, di lotta alle politiche di rapina dell’occidente ai danni dei paesi del terzo mondo, a cominciare dalla ex-Jugoslavia.

Il bilancio di questa esperienza è stato senz’altro positivo. Non creda il lettore che lo gonfiamo per orgoglio d’organizzazione; ben sappiamo come non esistano, tuttora, le condizioni per cui una tendenza coerentemente comunista possa raccogliere vaste -e, soprattutto, militanti- adesioni. Eppure l’attenzione suscitata dai temi da noi proposti è stata notevole. Quasi in ogni assemblea hanno catalizzato l’attenzione dei presenti. In molti casi, qualche lavoratore è intervenuto per sottolineare la giustezza di questo o quel punto, o, semplicemente, per porre domande. Qualche volta sono rimasti meravigliati, ma colpiti, da alcune considerazioni, come quelle sul carattere di classe del federalismo e sulla Lega, in particolare nelle fabbriche intorno Como. In altri casi il discorso sulla Lega ha fatto emergere come vi siano, ormai, anche dentro la CGIL lavoratori che tifano (per ora...) per Bossi. Alla ex-Falck di Dongo, per esempio, due lavoratori hanno interrotto tre volte il nostro compagno mentre parlava della Lega, dicendogli: parla di tutto, ma lascia stare Bossi, è lui la vera soluzione. Significativo che quasi il 50% degli iscritti di quella fabbrica (70 su 160) non ha partecipato al voto, probabilmente proprio per protesta verso posizioni espressamente anti-federalismo, mentre gli altri si sono divisi quasi in parti uguali (48 ad A.S., 42 alla maggioranza). Il che conferma, peraltro, come il nostro intervento non fosse a caccia di voti o di facili assensi, ma richiedeva "un di più" di partecipazione e di consenso.

Per quel che può valere, lo stesso consenso "elettorale" è stato significativo, sia perchè nelle assemblee tenute da noi il totale dei voti ad A.S. hanno superato quelli della maggioranza (non solo per merito nostro o dei nostri interventi, è ovvio), sia perché in più di un congresso provinciale di categoria (dove il 90% sono delegati di posto di lavoro) e anche in un congresso di Camera del Lavoro (Como) gli emendamenti sono stati votati in misura sufficiente (spesso largamente sufficiente) per essere inoltrati alle istanze congressuali superiori (il limite è del 25%). In queste ultime sicuramente si areneranno, d’altra parte la stessa composizione di tali istanze -ben raramente vi giungono semplici delegati di fabbrica, e quei pochi sono, per lo più, già consolidatamente schierati- le rende impermeabili a qualunque seria critica e opposizione.

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Comincia un'urgente battaglia di classe

L’esperienza (la chiamiamo così proprio per indicare che non costituisce la nascita di una chissà quale radicale corrente, ma che, però, può offrire utili indicazioni a chiunque... voglia apprenderle) dimostra essenzialmente tre cose.

1. Si fa strada tra i lavoratori una certa disponibilità a raccogliersi attorno a una opposizione interna al sindacato, ove questa riesca a manifestarsi soprattutto attraverso delegati e operai combattivi e riconosciuti.

2. Vanno maturando, nella classe operaia, le condizioni per un bilancio profondo della politica sindacale e per comprendere e condividere una critica radicale del riformismo.

3. La debolezza politica (e, non a caso, anche organizzativa) di A.S. Proporre degli obiettivi di "riconquista" mentre il problema è come bisogna resistere ai nuovi attacchi è, in buona sostanza, un po’ come chiamarsi fuori dalla lotta. Quella impostazione ha consentito alle varie anime di A.S. di trovare un comun denominatore per garantire un minimo di unità interna, accontentando quelli che aspirano unicamente a conquistare (o conservare) i posti percentualmente dovuti alla minoranza (cosa per cui si scalda tanto anche Lotta comunista) e quelli che, pur disposti a una più seria battaglia, si fermano dinanzi alla soglia di mettere in questione tutto (compreso il proprio) l’impianto riformista. Ma la debolezza di questa impostazione viene percepita anche da molti lavoratori e delegati schierati all’opposizione, ove si trovino innanzi un iniziativa politica di taglio più coerente e profondo.

Tutto ciò non vuol dire che si stia costituendo un nucleo, sia pure piccolissimo, di lavoratori schierati su un terreno conseguentemente di classe, né che si vada costituendo, per lo meno, una tendenza politica in quel senso. Le spinte che emergono tra i lavoratori, e in particolare tra quelli già orientati a una opposizione alla linea sindacale, non si traducono, al momento, nelle conseguenti scelte di lotta e di protagonismo diretto, anzi si riconferma il meccanismo della delega ("andate voi che siete più radicali a rappresentarci nelle strutture esecutive del sindacato", invito, ovviamente, da noi declinato: non è un posto in qualche segreteria periferica, o persino centrale, a poter "cambiare" la linea di questo sindacato), ma si conferma anche il meccanismo del "minimo sforzo", per cui dinanzi ai prossimi nuovi attacchi della borghesia questi stessi consensi ottenuti nell’ambito della discussione congressuale, saranno, in grande parte, riassorbiti dalla logica di accontentarsi di quel che si riesce a salvare con il minimo impiego di energie di lotta. In questo quadro il massimo che si poteva richiedere, e che abbiamo richiesto, è che i nostri spunti di analisi e le nostre indicazioni di lotta fossero considerati come elementi di riflessione, di discussione e di battaglia, tra i lavoratori innanzitutto, e, poi, nel sindacato. Possiamo dire di aver dimostrato come sia possibile realizzare, già oggi, i primi due, e come sia necessario lavorare a fondo per realizzare anche l’ultimo.

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La CGIL non è riformabile

A qual fine questa battaglia? Per avviare un processo di "riforma" della CGIL? No, questo sindacato -come ogni altro sindacato esistente in tutti i paesi imperialisti- non è "riformabile". Ciò vuol dire che non si dà la possibilità della crescita progressiva di una corrente interna conseguentemente comunista che ne possa, prima o poi, assumere la direzione. Non solo, ma è, ormai, irrealizzabile la stessa ipotesi di conquistarli -come si diceva una volta- "magari a legnate" da parte di un deciso protagonismo di massa. La subordinazione allo stato e all’economia capitalista da parte di questi sindacati è totale e irreversibile. Dinanzi a un’aperta crisi rivoluzionaria essi si blinderebbero completamente verso le istanze di classe del proletariato, fino al punto di organizzare un’attiva resistenza contro l’espandersi di quelle istanze, compresa la difesa in armi dello stato capitalista dall’assalto rivoluzionario delle masse proletarie.

Il lavoro politico dei comunisti al loro interno ha senso solo in quanto la massa dei lavoratori vi aderisce (o ne segue le indicazioni) ritenendoli le organizzazioni necessarie per tentare una difesa dei propri interessi. Questa adesione avviene, in ultima istanza, con motivazioni di classe: la difesa della classe "in sé", quale classe del capitale. Fino a quando questo legame (capitalismo-proletariato) ha le basi materiali per riproporsi, ben difficilmente la classe operaia si determina a scelte sindacali, politiche e, di conseguenza, organizzative più radicali. Ma, il capitalismo non è assolutamente in grado di garantirle all’infinito. Siamo già oggi in una fase in cui il "compromesso" tra le classi è duramente violato dall’aggressività capitalista, e tutte le contraddizioni del capitalismo spingono acché le violazioni diventino sempre più frequenti e profonde, fino al punto di introdurre un’epoca di grandi sconvolgimenti, di violenti scontri tra le classi fondamentali della società.

La lacerazione definitiva del "compromesso" - non in un unico determinato momento, ma lungo un corso di esplosioni più o meno ravvicinate- dimostrerà al proletariato la completa inefficacia della logica riformista, di compromesso, persino come semplice argine di contenimento delle aggressioni capitaliste. E questo lo porrà di fronte all’urgenza di dotarsi di tutt’altro armamentario sindacale, politico e, quindi, organizzativo. Nuove organizzazioni sindacali saranno, a quel punto, una necessità vitale per la stessa massa operaia, che seguirà, in prima istanza, il tentativo - in buona misura, "logico" e inevitabile- di riappropriarsi di quelle che ha considerato fino ad allora come le "proprie", bruciando con ciò l’ultima illusione nei loro riguardi.

Siamo, insomma, consapevoli che una ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria del proletariato comporta, tra i suoi passaggi obbligati, anche quello di costruire nuove forme d’organizzazione sindacale, ove per nuove è da intendere esattamente diverse da tutte quelle costruite nell’epoca della "tranquilla" coesistenza tra la classi, e per sindacali è da intendere non una semplice riedizione di quelle attuali con diversa direzione, bensì forme più complesse sul piano del contenuto politico e di diversissima impostazione quanto a direzione, sottoposta al rinnovato protagonismo di massa. Ma questa consapevolezza non ci porta a concludere di dover creare già oggi quell’involucro sindacale, nell’attesa che le masse lo riempiano. Non questo è il compito dell’oggi, allorquando l’insieme delle masse -e delle loro avanguardie, anche le più "estreme"- non hanno neanche cominciato a fare i conti con la loro stessa attitudine riformista, radicatasi tanto più profondamente quanto lungo è stato il periodo di "tranquillo" compromesso tra le classi.

Il compito dell’oggi è proprio quello di dare una battaglia a tutto campo per far emergere la necessità, persino l’urgenza, per la classe operaia di abbandonare quell’attitudine. E’ problema delle masse e dei lavoratori impegnati nei sindacati confederali, ma è problema anche di quelle minoranze impegnate nei vari tentativi di costruzione di organismi extra-confederali. A questi ultimi non chiediamo di "ritornare" nei sindacati maggiori (in cui, peraltro, non è affatto sicuro che continuerà a lungo la "tolleranza" di posizioni "estreme", anzi è molto probabile che, presto, altre forze saranno forzate a uscirne), ma chiediamo di mettere a fuoco il centro dell’obiettivo, che non è nella proposizione di questa o quella forma sindacale, ma una battaglia politica contro la logica, la politica del riformismo e delle sue conseguenze nefaste per l’insieme del proletariato, per affermare una coerente linea di difesa di classe. Questi due aspetti (critica del riformismo e linea di difesa di classe) non riguardano solo i lavoratori tuttora integrati nell’involucro dei sindacati confederali, ma riguardano, appieno, anche quelli inseriti nei sindacati extra-confederali. Anche in questi i conti col riformismo non sono stati assolutamente fatti; lo dimostra, in modo evidente, la Cub, finita col proporre posizioni persino più arretrate -su un piano di classe- di quelle espresse nella sua origine di sinistra-Fim. Ma lo dimostra anche quanto è successo al Cobas dell’Alfa, quando, ponendosi il giusto obiettivo di difendere l’occupazione, non ha potuto fare altro -proprio per l’assenza dei due aspetti di cui sopra- che inclinare verso l’aziendalismo e il localismo con la difesa "dello stabilimento" e della sua permanenza a Milano.

Non una battaglia astratta, solo politica o teorica, ma una battaglia legata alle stesse necessità di difesa poste alla classe operaia dagli assalti borghesi. Proprio perché anche solo per impostare una seria difesa di classe, bisogna riconquistare un’autonomia politica dalle leggi del mercato e ricostruire una unità, al di là delle frontiere, di organizzazione e di lotta.

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