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dal mondo

L’IRAN TRA MALESSERE SOCIALE E TENSIONI POLITICHE
(SOTTO LA VIGILANZA ARMATA DELL’IMPERIALISMO)


Indice

Le agitazioni sociali più recenti
Piani Cia contro L'Iran

Per i grandi poteri dell’Occidente l’Iran è al primo posto tra i "paesi terroristi". Cioè: tra i paesi da terrorizzare affinché imparino ad eseguire gli ordini dei padroni del mondo senza fiatare (nel recente vertice di Sharm el Sheikh pare si siano decise nuove azioni belliche congiunte USA-Turchia-Israele contro Teheran...).
Il vero bersaglio di tanto accanimento non sono gli ayatollah. E perché dovrebbero? Essi si portano da buoni adepti della economia di mercato, questo è quel che più conta. E non può certo essere qualche loro "arretratezza culturale" a togliere il sonno a un’Occidente che protegge come la pupilla dei suoi occhi i Wojtyla, i Dalai Lama, i petrolmonarchi semi-feudali, i capi-tribù afghani o ceceni e quant’altri oscurantisti gli si mettono al servizio; comprese le frotte di occultisti, maghi e spacciatori di droghe che il suo ventre putrido quotidianamente vomita. Solo i ciechi (per scelta) possono credere che siano il progresso civile dell’Iran o la liberazione delle donne (feticisti/e del voto, lo sapete che nessun parlamento è tanto "al femminile" quanto l’islamico Majlis?) a motivare la permanente mobilitazione anti-iraniana ed anti-islamica del superterrorismo imperialista (che nella regione del Golfo, non dimentichiamolo, ha già scatenato due mostruose carneficine in meno di dieci anni e una terza, che ha fatto finora 500.000 morti, ne sta conducendo "silenziosamente" contro la popolazione irachena, auspice l’umanitaria ONU).
Il vero bersaglio del cannoneggiamento imperialista è l’insorgenza rivoluzionaria del proletariato e degli sfruttati islamici. Quella insorgenza cui diede il là nel febbraio del 1979 proprio l’Iran. E che da allora, per quanto deviata, frenata, colpita a tradimento, dagli stessi ayatollah tra gli altri, per quanto priva di una guida comunista di classe, mai si è fermata, mai ha alzato bandiera bianca.
Che anzi di continuo risorge in nuovi, più ampi spazi dalle ceneri dei propri "insuccessi", nonostante i suoi limiti e la sua "solitudine".

Quell’insorgenza che non ha messo a repentaglio solo gli approvvigionamenti energetici dei paesi ricchi, ma il loro stesso "ordine" capitalistico, fondato sulla sopraffazione e la rapina ai danni delle sterminate masse lavoratrici del Terzo Mondo. Quell’insorgenza che, indomita, non si stanca di bussare alle porte della classe operaia metropolitana perché dismetta ogni complicità con gli aggressori, e si metta a capo della guerra di liberazione internazionale dal capitalismo, prima sorgente -oggi e domani- di tutti gli oscurantismi e di tutti gli orrori anti-umani.

Se un’imputazione i caporioni occidentali elevano ai loro sodali-"rivali" Khamenei, Rafsanjani, etc., è proprio quella di non essere stati ancora in grado di sbarazzarle dall’incubo della sollevazione rivoluzionaria degli sfruttati islamici, di non fare abbastanza (e non abbastanza in fretta) per eliminare il pericolo che essa si ripresenti in scena. Un pò come qui non cessano di bacchettare i D’Alema e i Cofferati non per un loro inesistente antagonismo al capitale, ma per quel "tanto" (pochissimo ormai) che essi vorrebbero "correggere" le, anche per loro sacrissime, leggi del profitto.

Perciò: se l’imperialismo occidentale non ha la minima intenzione di sospendere i suoi attacchi agli sfruttati islamici, noi marxisti, dall’opposto polo di classe, dobbiamo mantenere una costante attenzione e partecipazione militante alle vicende del mondo islamico, per tessere senza posa i fili che debbono unirci coi proletari dell’Islam nella comune battaglia per il comunismo.

L’Iran ha assunto un posto di rilievo nella moderna vicenda storica del Medio Oriente a seguito di due eventi rivoluzionari: la "rivoluzione costituzionale" borghese del 1905-1909, e, in tempi più vicini, l’insurrezione popolare del 1979. Con quest’ultima esso ha conquistato addirittura un ruolo da protagonista, anticipando (e contribuendo ad aprirla) la crisi dell’ordine imperialista che oggi viviamo nei suoi primi sviluppi, e gettando tra i piedi, tanto della borghesia che del proletariato internazionali, la bomba "islamica", la "complicazione" dell’entrata in scena delle masse diseredate del mondo islamico.

"PIANI CIA CONTRO L'IRAN"

E' il titolo di un trafiletto de Il Corriere della Sera del 23 dicembre '95, nel quale è scritto:
"La Casa Bianca e il Congresso hanno approvato un piano di destabilizzazione dell'Iran -eufemisticamente di democratizzazione- per neutralizzarne l'appoggio al terrorismo, impedire che si procuri la bomba atomica, e costringerlo ad adottare una politica moderata. E hanno stanziato 20 milioni di dollari, circa 32 miliardi di lire, per le attività clandestine della Cia contro Teheran...".

Nell’insorgenza degli sfruttati iraniani che rovesciò il regime dello Scià, la nostra organizzazione vide e salutò un fattore della ripresa della rivoluzione proletaria. Capace, ancorché zavorrato e stornato dalla ideologia e dalle organizzazioni islamiche, di farsi sentire fin dentro la metropoli imperialista. Ne seguì l’impegno -che non è mai venuto meno- a sostenere come nostro lo sforzo del proletariato, dei mostazafin dell’Iran (e di una giovane tendenza marxista in via di formazione, oggi purtroppo dispersa) di continuare la rivoluzione "iraniana". Di continuarla contro tutte le forze borghesi e imperialiste coalizzate contro di essa, e di proiettarla verso il movimento proletario internazionale, rompendo la camicia di forza del clero islamico.

Se da parecchi numeri il nostro giornale non è tornato per esteso su quel che accade a Teheran, è perché abbiamo preferito prendere in considerazione l’espansione e gli sviluppi al di fuori dell’Iran del movimento islamico (entrambi fortemente impulsati e condizionati dai fatti iraniani). E’ ora venuto il momento, però, di riparlare della situazione iraniana, giacché giungono da essa non trascurabili segnali di novità, che non mancheranno di avere ripercussioni in tutto il mondo arabo-islamico. Innanzitutto proprio sul piano che più c’interessa: la verifica del carattere inconcludente, demagogico, reazionario dell’"anti-imperialismo" e dell’"anti-capitalismo" dell’islamismo politico, da parte di quelle masse che ad esso, in mancanza di meglio, hanno dato fin qui credito.

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Dopo la guerra con l’Iraq

Riprendiamo dunque il discorso dove lo avevamo "interrotto". La fine della guerra con l’Iraq (e con l’imperialismo) fu accolta in modo assai differente dalle classi possidenti e dalle masse sfruttate.

La borghesia tutta, con i potentissimi bazari in testa, la considerò l’inizio del cammino verso l’agognata normalità "post-rivoluzionaria". La guerra, sebbene occasione di golosi traffici, era stata pur sempre, in qualche misura, una pericolosa "continuazione della rivoluzione". Ora bisognava che, con la sua interruzione, si placasse il tumulto della permanente mobilitazione delle masse, e si instaurasse la pace sociale, sia entro il paese che col mondo esterno, l’Occidente in primis. La formula delle classi sfruttatrici fu: "ricostruire l’Iran, invece di esportare la rivoluzione". Di lì a poco la morte di Khomeini sembrò dare loro il provvidenziale disco verde del caso.

Per larga parte degli sfruttati islamici, e sopratutto dei più diseredati tra essi, invece, la fine della guerra fu un boccone amaro da buttare giù. L’appoggio di Allah, il pesante tributo di sangue versato non erano stati sufficienti a sconfiggere né il "piccolo satana" Saddam, né il "grande satana" statunitense. Quella "guerra santa" cui avevano illusoriamente affidato le proprie attese di riscatto sociale con l’allargamento del raggio d’influenza della "rivoluzione", era andata persa. Una delusione ancora più cocente (che è ben descritta, ci informa Le Monde diplomatique, da un cinema iraniano significativamente ricco di talenti, e ovviamente escluso dai nostri circuiti veicolanti ogni genere di munnezza) la provarono i reduci dal fronte quando, tornati a casa, trovarono la società più ingiusta e corrotta di quel che l’avevano lasciata. Perciò le classi sfruttate dell’Iran non potevano guardare alla nuova "era di pace e di sviluppo" con la stessa fiducia dei capitalisti e dei possidenti.

Nei mesi successivi alla fine della guerra, il loro scontento venne provvisoriamente tacitato con l’innalzamento del livello dei sussidi per la disoccupazione, la casa, i generi di prima necessità, gli invalidi, le vedove, etc. Tuttavia, per i capi del potere borghese islamico giunse, col varo del primo piano quinquennale (’89-’94), il momento di scegliere gli assi strategici economico-sociali della ricostruzione.

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La perestrojka islamica...

Essendo state cancellate da un decennio di sanguinosa repressione le forze politiche non confessionali, lo scontro intorno a questi assi si svolse pressoché integralmente dentro il movimento islamico. Tra l’islamismo "radicale" (campione assai inconseguente di populismo, di statalismo e di anti-occidentalismo) e il "partito" dei (cauti) liberalizzatori che riportò la vittoria. Questo, profittando del riflusso della mobilitazione di massa e dell’universale vento "riformista" (siamo nell’89!), varò sotto la regia di Rafsanjani, in vista della "decade della ricostruzione", una sorta di perestrojka islamica.

Anzitutto: per gli anticipi del ciclo di ripresa e la ricostituzione su basi tecnologiche rinnovate dell’apparato industriale devastato dalla guerra, la repubblica islamica decideva, modificando la politica fin lì seguita, di ricorrere al mercato finanziario internazionale (l’ultimo decreto che Khomeini firmò prima della sua morte autorizzava appunto i prestiti esteri).

In secondo luogo, s’avviava una politica di ri-privatizzazione delle imprese e banche nazionalizzate nei primi anni della "rivoluzione", con l’entrata progressiva degli imprenditori privati individuali in tutti i rami di attività, inclusi quelli di "preminente interesse nazionale" (esplorazione dei giacimenti di gas e raffinazione del petrolio). Le istituzioni assistenziali pubbliche vennero invitate a attenersi maggiormente a criteri di redditività.

Veniva poi allentato il controllo statale su tutti gli snodi della distribuzione sociale, dal commercio con l’estero alla fissazione dei prezzi, al mercato valutario, etc. E si lasciava cadere definitivamente nel dimenticatoio ogni progetto di ridistribuzione delle terre dai grandi proprietari ai contadini nullatenenti.

Infine, si prendeva a tagliare con prudenza il complesso meccanismo del "welfare islamico", sia quello erga omnes che quello a favore dei "martiri della rivoluzione", nonostante il razionamento dei beni di prima necessità si andasse crescentemente a scontrare con la scarsità dei fondi stanziabili a tale scopo.

Queste le linee guida del 1° piano quinquennale. Nonostante il gradualismo dei provvedimenti governativi, i costi sociali per il proletariato, gli sfruttati e -come denunziò lo stesso sindacato di regime- per tutti i ceti a reddito fisso, furono subito tangibili. Inflazione al galoppo, incremento della disoccupazione e della povertà, contrazione dei servizi, tariffe alle stelle. Non minore il costo per l’Iran come paese. Il debito estero, naturalmente a breve -non siamo mica in Israele- esplose (7 milioni di dollari nel 1989, divenuti 24 nel 1993 e 41 nel 1995). Il rial (il cui valore, in 15 anni è diminuito di 500 volte rispetto al dollaro!) crollò, secondo quella spirale di svalutazione e soffocamento della economia e della "indipendenza" nazionali da parte del capitale imperialista che è tristemente nota a tanti paesi terzi.

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...ha dato esiti deludenti.

La ricostruzione, peraltro, non è mai riuscita a prendere una corsa, o foss’anche un lento cammino, minimamente regolare. All’oggi, non solo il prodotto nazionale è appena il 40% di quel che era nel 1977 (e il reddito medio pro capite appena 1/5), ma nessuna importante modifica qualitativa della struttura produttiva è stata avviata che ne consenta pur alla lontana una minore dipendenza dall’esportazione di petrolio e dalla importazione di alimenti e macchine. Il circolo virtuoso prefigurato dai "riformatori", sviluppo-modernizzazione-integrazione "paritaria" nel mercato mondiale (con dividendi tali da non solo ripagare i creditori esteri, ma alleviare le contraddizioni interne più stridenti), è rimasto sulla carta. Non poteva essere diversamente, stante la compressione esercitata sull’Iran dalle potenze imperialiste, e dato che a monte di questa perestrojka non c’è una trama produttiva e di mercato paragonabile, come meccanismo in qualche misura "completo" ed "auto-propulsivo", con quella edificata in URSS dallo stalinismo. L’imperialismo ha impedito prima all’ambizioso Scià, poi ai suoi successori islamici, di realizzarla.

In un’economia (ed una nazione) dalle grandissime potenzialità, ma priva di un reale coordinamento tra i vari settori, già squilibrata di suo e per di più sconquassata dalla guerra, frammentata, con una organizzazione del lavoro arretrata poco competitiva su scala mondiale, l’improvvisa immissione di capitali liquidi (e dei loro portatori internazionali interessati ad approfondire tutte queste debolezze) ha innescato, invece che una dinamica di crescita "sana", una speculazione generalizzata, che ha finito per tutto sovrastare. Nel contrarsi dell’intervento regolativo e di controllo dello stato, è stata sempre più questa a svolgere il ruolo essenziale di connettere il mercato governativo dei prodotti sovvenzionati, il mercato "libero" e quello nero (di valuta e dei beni), micro-produttori e micro-produttori, produttori e consumatori, pubblico e privato, mercato interno e mercato mondiale.

E’ così avvenuta una mezza liberalizzazione ma senza sviluppo, senza modernizzazione e senza neppure un abbozzo "razionale" di vera ricostruzione. Una ricostruzione in qualche modo corrispondente alle enunciazioni programmatiche della "rivoluzione islamica" avrebbe avuto bisogno di progetti a lunga scadenza e di stabilità sociale -oltreché di robuste sponde a scala mondiale-. Il trionfo della speculazione e dei grandi bazari grassatori di guerra e di pace ha comportato l’opposto: la ricerca spasmodica dell’utile immediato individuale, e lo schiacciamento nell’indigenza e in tormenti di lavoro indicibili (i milioni di persone coinvolte nella produzione a mano dei tappeti, nella economia "informale" urbana o in una coltivazione dei campi che spesso ancora ignora la meccanizzazione) di quelle masse oppresse a cui l’islamismo ha promesso, e continua a promettere (nei sermoni del venerdì...), una società "giusta" e una "comunità" "senza classi".

Troppo grandi i pericoli di de-legittimazione del regime islamico e di sua crescente esposizione verso l’imperialismo, perché tale linea di marcia non venisse costantemente ostacolata e contestata dal suo stesso interno; ciò che ha dato al corso "liberale" della politica iraniana un andamento tortuoso a continui stop-and-go.

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Le proteste di massa impongono un mezzo passo indietro.

Per parte loro il proletariato industriale e le masse dei diseredati che -pur senza agire come classe per sé- sono stati i protagonisti fisici dell’insurrezione del ’79, non hanno subìto passivamente l’affronto di politiche tanto apertamente anti-popolari, esplodendo (vedi riquadro) in molteplici dimostrazioni di protesta e rivolte, quasi sempre in grandi città, dimostrazioni spesso violente e colpite da sanguinosa repressione. Fiammate discontinue, isolate, se si vuole incoerenti, in quanto mancanti di una prospettiva politica capace d’inquadrarle come momenti di un’organica ripresa del cammino della rivoluzione sociale anti-capitalista e anti-imperialista. Ma pur sempre tali da porre un’ipoteca non da poco sotto l'impalcatura della repubblica islamica. Sopratutto a misura che il malcontento si è venuto acuendo anche in quella classe operaia industriale che della ripresa avrebbe dovuto per prima beneficiare.

Il potere islamico è stato costretto a tenerne conto e a rettificare il suo tiro. Non erano ancora finite le congratulazioni occidentali per la liquidazione totale dei "radicali" alle elezioni del giugno ’92, che già il governo iraniano cominciava una graduale conversione "a sinistra". Lo slogan di riferimento coniato da Khamenei, il contraltare populista di Rafsanjani, suonava: "la giustizia sociale dovrà prendere il sopravvento sullo sviluppo economico". Sarebbe, in astratto, stato efficace se non fosse che, essendo mancato questo, non si vedrà, a maggior ragione, neppure un minimo di "keynesiana" redistribuzione degli utili.

Nondimeno è dal novembre ’93 che la sovranità del clan di Rafsanjani (1) nel tracciare la politica economica, viene sempre più limitata nel governo e nell’amministrazione centrale da personale favorevole ad una ripresa dell’interventismo statale. Si cerca di porre un alt alle importazioni sregolate, sottoponendo l’import al controllo delle banche nazionalizzate. Il ministero del commercio incomincia a negare l’autorizzazione alle merci straniere che possono scalzare la produzione agricola locale, e così via. E la discussione del secondo piano quinquennale (1995-1999) ha dato modo a un Majlis niente affatto "radicale" di correggere le linee previste dal governo. Che è stato vincolato a ridurre l’esposizione debitoria verso l’estero, a fissare un piano di rientro dal debito estero e dei limiti all’esportazione di capitali, e ad imporre un tetto ai prezzi (cfr. Arabies, settembre 1994, n. 93).

L’ennesimo, particolarmente traumatico, shock monetario del febbraio ’95 (il rial si è svalutato del 20% in un giorno) rafforza ancora le richieste di maggior controllo del mercato e chiusura "autarchica". Per parte sua il governo, -per bilanciare in qualche modo il taglio dei sussidi e calmierare la speculazione- ha aperto una catena di 1.000 supermercati com merci a prezzi sussidiati. E la magistratura islamica, consapevole del montare dell’odio di massa contro gli affaristi, ha comminato prime punizioni esemplari (tra cui anche una condanna a morte) contro affaristi, banchieri e funzionari corrotti. Anche Rafsanjani è stato costretto, di quando in quando, a biasimare la "avidità" e lo scarso senso di responsabilità "sociale" dei bazari.

Ma sarà bastante questo mezzo passo indietro nella liberalizzazione a ricucire il rapporto non poco logorato tra regime islamico e masse sfruttate? servirà a far risollevare l’Iran da quello che il radicale Jumhurie Eslami ha definito "un colpo devastante inferto al suo prestigio come centro del mondo islamico"? E’ quello che vedremo nella seconda parte dell’articolo, in cui ci occuperemo anche dei determinanti risvolti internazionali del problema.

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Le agitazioni sociali più recenti

*luglio-agosto ’91: dimostrazioni a catena nella capitale, in particolare nel quartiere popolare di Baghderabad, contro la demolizione di una baraccopoli, la quintuplicazione delle tariffe e l’aumento dei prezzi (varii incendi dolosi colpiscono i bazar di Teheran e Rasht). Proteste analoghe anche a Isfahan, Tabriz, Zanijan e Kermanshah.

*maggio-giugno ’92: manifestazioni di protesta contro il carovita a Mashad (ove assumono una radicalità pari a quella del ’79) e Shiraz, che si propagano poi ad Arak, Tabriz, Teheran e ad alcune città del Sud. Imprecisato, ma alto (centinaia?) il numero dei morti, tra i manifestanti come pure (a Zahedan, per es.) tra i pasdaran. Ufficiali dell’esercito, dei pasdaran e della polizia di stanza a Mashad si rifiutano di partecipare alla repressione.

*ottobre ’92: forti manifestazioni popolari a Qom e Mashad (guidate dalla "sinistra islamica") contro l’aumento della tassa per l’allacciamento del gas. La società del gas fa marcia indietro.

*novembre ’93: ripresa delle proteste contro il carovita e il taglio dei sussidii; nella capitale, raffiche di armi da fuoco contro diverse ambasciate occidentali.

*febbraio ’94: a Zahedan, città di mezzo milione di abitanti al confine con il Pakistan, violenti moti di piazza con distruzione di pubblici edifici, innescati -pare- da motivi "religiosi" (sunniti contro sciiti).

*estate ’94: sanguinose rivolte contro il carovita in diverse città, tra cui Mashad e Tabriz. A Qazvin, nel nord del paese, i comandanti dell’esercito, dell’aviazione e degli stessi pasdaran si rifiutano di reprimere le manifestazioni e scrivono una lettera pubblica a Khamenei in cui affermano che "il compito delle forze armate è di difendere le frontiere del paese e respingere lo straniero, non quello di controllare la situazione interna e rafforzare una fazione nei confronti dell’altra".

*marzo ’95: rivolta ad Islamshahr, nella "cintura della povertà" a sud-ovest di Teheran, provocata dal raddoppio del prezzo del petrolio e dall’aumento dei prezzi dei trasporti pubblici. Duri scontri tra masse di manifestanti e polizia, con diversi morti e numerosissimi arresti.

*luglio ’95: ampi scioperi e manifestazioni di operai in varie zone dell’Iran. Ne è coinvolta anche la più grande fabbrica del Medio Oriente, la Benz Khavar, uno stabilimento di montaggio auto situato ad Arak, presso Teheran.

Nota

(1) Nel giugno ’93 Rafsanjani è stato rieletto presidente dell’Iran, ma sono da notare tre cose. Primo: ha ricevuto 10 milioni di voti, pari al 63% dei votanti rispetto ai 15 (un vero plebiscito) del luglio 1989. Secondo: più di 12 milioni di votanti (su 29), oltre il 40%, ha disertato le urne. Terzo: il solo tra i suoi "avversari" che abbia espresso qualche critica all’Occidente ed al carovita, l’ex-ministro del lavoro Tavakholi (peraltro autore, a suo tempo, di un forcaiolo progetto di Codice del lavoro), ha raccolto un inatteso 23,3% dei voti (L’Unità, 14.6.1993). Tre chiari indici della disaffezione e del malcontento di massa nei confronti del regime islamico, che le recenti elezioni parlamentari di aprile (di cui parleremo nel prossimo numero) non hanno di certo smentito.

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