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Il pantano dell’Italietta del Duemila: dietro le ultime elezioni amministrative

L’APPUNTAMENTO SI ALLONTANA, MA BOSSI CONTINUA A PREPARARVISI CON METODO

Indice

 

La Lega e Bertinotti 1
La Lega e... Bertinotti 2
Bossi si è presentato alle amministrative di novembre dopo aver affilato le lame nelle iniziative di settembre e nelle elezioni padane del 26 ottobre. Come al solito, i mezzi d’informazione di regime hanno parlato, nell’uno come nell’altro caso, di buco nell’acqua. Falso. Il consenso sociale e militante, prima ancora che elettorale, alla Lega non è regredito. È vero però che i dirigenti della Lega non sono riusciti a dare quella spallata a "Roma Ladrona" che avevano auspicato nei mesi addietro. Come mai?

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La Lega tiene.

Tanto per dire: il 26 ottobre, malgrado il silenzio dei mezzi d’informazione e gli ostracismi dei vertici dello stato italiano, s’è recato a votare nei gazebo un numero significativo di "padani". Nelle amministrative, conferma dei livelli di consenso già raggiunti: non è stata presa Venezia, ma è stata espugnata Vicenza (una delle prime provincie industriali italiane) contesa sul filo di lana con una lista autonomistica (ed è tutto dire). "La Lega tiene", ha giustamente dichiarato Bossi. Ed essa ha potuto così riconfermare l’esistenza di una "questione settentrionale" di cui si fa carico in modo militante, centralizzato, e secondo una prospettiva borghese e reazionaria.

Il missile leghista non è tuttavia entrato in orbita? Certamente, ma se vediamo quali sono e dove conducono i fattori che ne hanno rallentato la marcia, non c’è di che rallegarsi.

Prendiamo la gara elettorale di Venezia. Bossi l’aveva caricata di significato simbolico. Il suo candidato ha perso. Ma solo perché Cacciari e la "sinistra" (compresa quella "autonoma" dei centri sociali) si sono battuti su una piattaforma più leghista di quella di Bossi. Che, quindi, non sfonda perché (è il primo fattore) il leghismo viene vieppiù introiettato fin dentro l’Ulivo "unitarista", nella forma del federalismo municipalista.

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Bossi e i padroni del vapore

L’altro dato su cui Bossi contava e che non s’è realizzato, è stata l’alleanza organica con pezzi di Forza Italia e di Alleanza Nazionale. E cioè: con la grande borghesia del Nord.

Come spieghiamo nell’articolo precedente, la borghesia italiana ha crescenti difficoltà a effettuare la svolta a destra che oggettivamente le impone il capitalismo mondializzato. Con quale conseguenza? Che la soluzione della "questione settentrionale" diventa sempre meno realizzabile all’interno del tradizionale quadro capitalistico nazionale. Bossi punta le sue carte su questo impasse.

Il fatto che esso non sia diventato dirompente nei tempi inizialmente previsti, non ha scosso la Lega più di tanto. Essa continua a lavorare metodicamente, con una vera attività di partito, in vista di quest’appuntamento di medio-lungo periodo, e trova un suo elemento di forza proprio nella certezza (da noi condivisa) che la resa dei conti arriverà. Uno dei terreni che Bossi si sta più impegnando ad arare è quello dei rapporti con i padroni del vapore, ai quali rivolge un discorso di questo tipo:

"Quello che non è possibile fare entro il perimetro italiano, possiamo farlo in una scala ridotta, in Padania! State tranquilli, non è che con questo butteremo a mare il ghiotto boccone del Mezzogiorno, ce lo gusteremo da "fuori", sulla base di un moderno rapporto "neo-coloniale" con esso".

Non ci inventiamo niente. Traduciamo a modo nostro i discorsi di Bossi e i suoi abboccamenti verso i tanto "vituperati" (a mo’ di nonno Mussolini) padroni del vapore. Questi ultimi raccoglieranno l’offerta? Le pulsioni in tal senso non mancano. Così come non mancano, però, le spinte verso un ancor più profondo sfarimento del tessuto borghese italiano.

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Al Nord, gli umori borghesi tendono a tingersi di verde?

Non c’è dubbio che stia crescendo l’attenzione verso la Lega Nord dei capitalisti legati a FI e AN. Delusi da Berlusconi, incavolati con Prodi, essi cominciano a prestare ascolto al polo di destra che si va enucleando nella compagine di Bossi intorno ai nomi di Gnutti, Pagliarini e Stefani. Costoro, in vista delle elezioni padane, hanno esplicitato i cardini del programma della destra padana (che, divisa al momento tra varie formazioni, ha raccolto il 26 ottobre tra il 40 e il 50% dei voti): rottura dello stato centralista italiano, ma rottura anche di altri monopòli centralisti, come quelli della rappresentanza sindacale, della scuola, del collocamento; piena libertà alle leggi di mercato; organizzazione dei lavoratori in un nuovo sindacato ancor più prono di Cgil-Cisl-Uil alle esigenze di competitività delle imprese.

Senza dubbio un programma "interessante" per i borghesi padani. Essi tuttavia, scottati anche dal "tradimento" di Bossi del 1994, mantengono un atteggiamento di cautela verso la Lega. Più lanciati, sono quei rappresentanti del Polo che cercano di guidare dall’alto l’"incontro" delle rispettive basi sociali. Siamo contro la secessione, precisano costoro, ma le imprese del Nord hanno bisogno di una riorganizzazione federalista dello stato, altrimenti non ce la faranno a reggere la concorrenza internazionale: se la classe politica continua a partorire topolini, se continua a resistere la dittatura della sinistra, allora avranno la secessione. Savelli, ad esempio, il 27.IX ha confessato alla Padania: "I leghisti hanno perso la fiducia nel fatto che questo sistema possa riformarsi da solo. Chi se la sentirebbe di dar loro torto, visti gli attuali risultati?".

C’è anche chi cerca di tessere organicamente la tela. È quella canaglia di Feltri, il quale ha tuttavia il merito di dire pane al pane e vino al vino. Da settembre, nel suo fogliaccio s’è messo a predicare a favore della secessione, perché s’è "convinto che è l’unico modo per spazzare via problemi che vede sempre identici da cinquant’anni a questa parte", primo tra tutti il potere d’interdizione della "Triplice". E ha cominciato a darsi da fare per costruire "una Lega bis per quelli che hanno i soldi, per la buona borghesia e per gli industriali", memore della lezione tratta da Hitler nel Mein Kampf a proposito del suo fallimento del 1923: "non aveva dietro gli industriali" (lUnità, 11. IX. ’97).

Gli industriali e la buona borghesia del Nord faranno con Bossi quello che fecero, nel vortice della Grande Depressione, i magnati tedeschi con Hitler?

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Anche la padana Lega di Bossi soffre del tipico male italiano?

C’è poi un terzo aspetto da considerare. I risultati elettorali di Genova, di cui ci occupiamo nella pagina precedente, testimoniano della difficoltà della stessa Lega di attrarre e inquadrare la radicalizzazione "anti-sistemica" a destra in atto in settori dei "ceti medi" e del proletariato del Nord. La formazione di Bossi stenta a mettere nel suo serbatoio la migliore delle benzine che potrebbe desiderare, il che denota che anche questo partito non è immune dalla tabe del "paese dei cachi".

Questa insufficienza incide inoltre anche sulla capacità della Lega di mettere a frutto per sé ciò che si muove intorno all’iniziativa regionalista dei presidenti polisti di Piemonte, Lombardia e Veneto. Essi sono contrari al federalismo delle città perché a loro avviso non lascia in campo dei centri di potere borghese sufficientemente potenti, quali invece potrebbero essere le regioni. Su questo contrasto, rinfocolato dall’affermazione elettorale del partito dei sindaci, si sta delineando un asse dei presidenti delle regioni del Nord con la Lega di Bossi. Il tutto però continua a svolgersi a colpi di fioretto istituzionali, con il rischio di confondere le "truppe" già in campo.

Dove andrà a parare tutto questo? Di sicuro, ci sentiamo di affermare che, in caso di fallimento del progetto di Bossi, l’alternativa sarà (dando per scontato l’assenza all’immediato di una forza proletaria in grado di imporre uno sbocco della "crisi italiana" in chiave comunista rivoluzionaria) una svolta a destra dello stesso segno di quella leghista, ma non più coordinata e centralizzata nell’intero perimetro padano, bensì frantumata per regioni e città. Sarà quel "catalan-fascismo", a cui stanno spianando la strada, non importa quanto consapevolmente, i vittoriosi sindaci dell’Ulivo, Cacciari in testa.

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Abbiamo bisogno della vostra attivizzazione, ma... contro voi stessi.

C’è infine un altro motivo, strettamente correlato ai precedenti, per cui il missile leghista non è riuscito ad entrare in orbita: le difficoltà emerse alla fine dell’estate nel rapporto con la sua base proletaria.

In un’area capitalisticamente avanzata qual è il Nord dell’Italia, il ferreo soggiogamento del mondo degli sfruttati alle esigenze di competitività della micro-nazione padana (questo è ciò a cui mira Bossi), non può essere ottenuto solo sulla base della costrizione e della passivizzazione. Una dittatura militare può andare bene per un paese sudamericano, ma non per la Padania. Qui, quel soggiogamento può realizzarsi solo se la massa proletaria, almeno in un suo nucleo decisivo, si mobilita a favore di esso e vi disciplina tutta la società (singoli riottosi borghesi compresi). Bossi ha bisogno come del pane di questa attivizzazione anche perché essa è l’unica forza su cui può contare per evitare il rischio -da lui giustamente percepito- di vedere ridotta la Padania a colonia dei maggiori paesi imperialisti. (Eventualità per cui questi ultimi stanno al momento lavorando tenendo in piedi l’Italia e lasciando che vada più avanti possibile il processo di de-muscolarizzazione delle forze borghesi e proletarie interne, soprattutto nel cuore strategico del paese).

Negli anni scorsi, soprattutto a partire dal ribaltone del ‘94, Bossi ha raccolto un significativo consenso tra gli operai. Ha messo a frutto, per sé, il sentimento che comincia a diffondersi in larghi strati del proletariato del Nord. Siano di destra, di sinistra o agnostici, i lavoratori e i giovani senza riserve della "Padania" cominciano a ragionare in questi termini: lo stato italiano, così com’è oggi, non svolge affatto quelle funzioni di pubblica utilità per le quali noi paghiamo le tasse; i soldi che escono dalle nostre tasche e dai portafogli delle imprese, se li mangia uno strato di parassiti culo e camicia con le clientele e le mafie che appestano il nostro paese; lo stato romano, quindi, fa cornuti e mazziati noi lavoratori, e in più danneggia le imprese, perché, anziché sostenerle nella competizione internazionale, le zavorra di inutili costi, con irreparabile danno non solo dei padroni, dei manager e degli azionisti, ma anche nostro.

Ë un sentimento in cui si mescola contraddittoriamente la rabbia verso il parassitismo dello stato borghese nazionale e l’ubriacatura per le virtù miracolistiche del mercato (che di quello è la vera fonte!). Mentre una parte dei proletari crede ancora che la cosa possa essere aggiustata con una riforma federalistica dello stato italiano, e guarda a tal fine con speranza nel governo Prodi o nel nascente "partito" dei sindaci, una fetta di essi, quella che ha aderito alla Lega, s’è andata convincendo che le istituzioni tricolori non possono essere riformate: devono essere distrutte. La speranza è stata riposta in questo caso nella Padania.

La Lega Nord non poteva però accontentarsi del bottino operaio raccolto fino alla metà del ’96. Aveva e ha bisogno di costituire un suo sindacato, forte e radicato nei posti di lavoro. Ë quello che Bossi ha provato a fare lo scorso anno lanciando l’iniziativa di settembre contro Cgil-Cisl-Uil. L’iniziativa è servita a presentare sulla scena nazionale il Sin.pa, ma non ha fatto filotto, come qualche dirigente leghista sperava. Per diversi motivi: 1) perché il nuovo ritocco delle pensioni varato con il consenso di Cgil-Cisl-Uil ha per ora risparmiato gli operai (ma il FMI già ha detto che il ritocco va... ritoccato!); 2) perché la nuova generazione proletaria del Nord, pur se al prezzo di un lavoro vieppiù duro e di un’esistenza faticosa, riesce ancora ad andare avanti decentemente sul piano dei consumi; 3) perché la Lega stessa ha -in varii modi- frenato le aspettative che il suo appello aveva alimentato tra gli operai, per evitare di rischiare di esserne "travolta" e di deludere la rinascente attenzione della "buona borghesia" del Nord.

"Bruciamo le tessere di Cgil-Cisl-Uil! Ma non crediate che lo facciamo perché hanno svenduto gli interessi dei lavoratori!": questo il messaggio che lo stato maggiore leghista si è preoccupato di far arrivare ai "propri" operai. Lo ha fatto anche attraverso la posizione di basso profilo assegnata al Sin.pa nelle manifestazioni autunnali della Lega, ultima quella di dicembre. Gli stessi ondeggiamenti di Bossi sul caso Previti, infine, non andranno certo a cementare il rapporto con gli operai del Nord. Per Bossi sarà pagante un tale equilibrismo?

Di sicuro il contesto sociale e politico paludoso in cui si sta verificando quest’intoppo nel rapporto tra operai e Lega, lo trasformerà in un altro dei fattori che spingono i proletari verso la passività, verso la sfiducia nell’azione politica per la tutela (foss’anche dietro bandiere borghesi-reazionarie) dei propri interessi.

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Il nostro appuntamento

Cosa deriva da quanto sopra per i comunisti e i proletari che si rendono conto della drammaticità della situazione e della piega ancor peggiore che essa rischia di prendere? Che i lavoratori leghisti e i proletari che cadono nell’apatia politica sono persi per la battaglia di classe? Assolutamente no. Essi rimangono il soggetto di un antagonismo storico che il capitalismo mondializzato si appresta a richiamare in vita non semplicemente in Padania ma alla scala che realmente gli appartiene: quella dell’intero globo. Il distacco di fette crescenti di proletariato del Nord dai contenitori tradizionali sta ad indicare il fatto che i problemi sociali e politici che la realtà del capitale sta buttando davanti ai loro piedi non sono risolvibili con i giochi parlamentari e le mediazioni che hanno funzionato fino ad adesso. Per ora ci si abbandona, in forme diverse, alle soluzioni "spontanee" e "selvagge" offerte dalle mani del Dio Mercato. Ma si tratta di un’illusione che non potrà consolidarsi e permanere all’infinito.

È in vista dell’inevitabile risveglio futuro che sin da oggi va impostato, da parte dei comunisti e dei proletari che hanno a cuore le sorti della propria classe, un adeguato lavoro d’intervento verso la massa del proletariato, nel quale si denunci che cosa sia in concreto il mercato in relazione a tutti i problemi di cui essa soffre e si lamenta: la crescente durezza del lavoro, il parassitismo dello stato italiano, una sanità che traffica sulla pelle degli individui, l’insoddisfazione per una vita sociale sempre più a-sociale. Una battaglia politica su questa trincea confinerà chi la sosterrà nell’isolamento? Sicuramente, ma la sbornia a un certo punto comincerà a passare, e diverrà attuale per una minoranza del proletariato l’indicazione politica che nel frattempo si sarà costantemente proposta: "Gettiamo nel fango le bandiere borghesi che, spesso gli uni contro gli altri, abbiamo impugnato finora, raggruppiamoci intorno a un programma e a un’organizzazione anti-capitalistici, facciamolo all’unica scala efficace: quella mondiale, usiamo questa leva per guidare verso la prospettiva rivoluzionaria le risposte di lotta proletarie ai colpi del mercato mondializzato e delle sue istituzioni statali."

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La Lega e Bertinotti 1

"Il nostro avversario di oggi è la Lega, i suoi progetti eversivi di destra e secessionisti, le sue strategie di aggressione al movimento operaio. Ma non solo: il nostro avversario è il disegno, di cui la Lega è uno degli strumenti, a fare prevalere ad ogni costo, in ogni angolo del mondo, la logica del profitto, del mercato, dell’impresa cui ogni diritto, dei singoli come delle collettività e dei popoli, dovrebbe essere sacrificato" (da Liberazione, 13.IX.’97)

"Non sono i magistrati, non è la polizia che devono battere la Lega, ma la mobilitazione dei lavoratori. È così che si dimostra che la Lega non è solo separatista, ma padronale. Allora si può tornare a usare una parola antica: "Nord e Sud uniti nella lotta"" (da Liberazione del 16.IX.’97)

"Il secessionismo è l’idea di un modello sociale regressivo e fortemente liberista" (da Liberazione del 21.IX.’97)

La Lega e... Bertinotti 2

Bossi - Bertinotti insolito" duetto" in Transatlantico

Accetta un consiglio: lascia perdere la secessione e riparti dalle città", dice Fausto Bertinotti a Umberto Bossi. E il leader della Lega di rimando: "Tu sai come la pensa il nostro popolo... Vieni in Padania e prova a convincerlo". Lo scambio di battute sì svolge nel Transatlantico di Montecitorio, durante le votazioni della Finanziaria. Bossi è insieme a Maroni, Pagliarini e altri leghisti. Bertinotti, solo; si avvicina per fare i auguri di Natale e di fronte alla calorosa stretta di mano gli scambio con Bossi si forma subito un capannello. "Se tu riparti dalle città - spiega a Bossi il leader dei Prc - innovi veramente e imbocchi una strada vera: quella delle cento città municipali". "Lo so, - dice Bossi - dalle nostre parti nell'anno mille le città si governavano da sole: eleggevano i magistrati, decidevano la guerra ... Perché allora non c'era un sistema romano-centrico come ora", "Beh, adesso - osserva Bertinotti - non semplifichiamo troppo la storia...". Poco dopo, Bossi invita, ancora scherzosamente Bertinotti a convincere i padani. Bertinotti scuote la testa. Poi rilancia verso Bossi: "Capisco: temi i miei consigli perché se fai come dico io potrebbe nascere una Repubblica Socialista Padana e tu avresti perso lo stesso". "Chissà, forse nascerebbe una Repubblica Sociale ... ", interviene allora La Russa, anch'egli, presente. Bossi ride. "Pensaci su", conclude Bertinotti, che abbraccia Bossi, stringe la mano a tutti e si allontana.

Da La Padania del 18.12.'97

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