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Dopo i raid americani su Sudan, Pakistan e Afganistan

IL TERRORISMO IMPERIALISTA,
UN BOOMERANG PER GLI USA E L’OCCIDENTE

 

I bombardamenti e i missili americani su Khartoum, l'Afganistan e il Pakistan hanno una volta di più evidenziato quanto è esteso nel mondo islamico l’odio nei confronti dell’imperialismo yankee e dell’Occidente tutto. Non solo nella Libia messa perennemente all’indice dal fetentissimo diritto internazionale o nella Palestina sempre occupata e martoriata dallo stato di Israele, non solo in un Sudan strangolato dai killer in guanti bianchi del FMI o in un Iraq che è nuovamente sotto il ricatto d’un ulteriore prolungamento delle sanzioni ONU, ma pressocché ovunque, inclusi e in prima fila i paesi come Afghanistan e Pakistan nei quali Washington aveva goduto finora di un certa simpatia, si è toccato con mano quant’è diventato largo, ormai incolmabile, il fossato che divide la gran parte delle masse oppresse e super-sfruttate del mondo arabo-islamico (nella sua interezza) dall’establishment imperialista.

Lo testimonia, per via indiretta, anche la presa di posizione della Lega araba, che è stata unanime e tempestiva, una volta tanto, nel biasimare l’attacco yankee (una vera rarità per questo organismo borghese che da un bel po’ si segnala solo per la sua codardia filo-imperialista). Anche i regimi totalmente infeudati all’impero del dollaro non possono più (lo poterono ancora nel 1990) non tener conto dei sentimenti antimperialisti delle loro popolazioni.

Che il bersaglio gridato (altra cosa, poi, è quello effettivo) della rappresaglia statunitense sia stato lo sceicco (1) saudita Ben Laden non è né comico, né frutto dell’insipienza da fanciulloni degli yankee, come credono gli insipienti redattori di Liberazione o de il manifesto. E’, al contrario, altamente indicativo del grado di acutezza raggiunto dal contrasto di classe tra sistema imperialista e paesi da esso dominati. La provenienza nazionale di Ben Laden, la sua appartenenza di classe, la sua iscrizione nei registri degli ex-agenti della CIA: neppure questo eccellente pedigree reazionario, a metà naturale, a metà acquisito, gli è stato sufficiente a evitargli di finire sul libro nero dell’FBI&C. come il "Che Guevara islamico". Scherzi maligni di quella incontenibile forza delle contraddizioni materiali oggettive che lo stesso "ricercato n. 1" sarebbe pronto a negare (invano).

Il fatto è che non solo il riscatto sociale e la liberazione dal super-sfruttamento e dall’oppressione (anche nazionale), ma perfino, per certi versi, la stessa sopravvivenza delle classi lavoratrici dell’Islam (il petrolio è pagato ormai 11 dollari a barile, 110 lire al litro, 1/3 della più scadente delle acque minerali) reclamano come non rinviabile la guerra rivoluzionaria all’imperialismo. Una guerra in cui gli sfruttati e gli oppressi dell’Islam saprebbero rifondere -ove essa fosse seriamente e coerentemente preparata, organizzata e condotta- una immensa energia di lotta, oggi compressa e dispersa. Lo sanno molto bene i governanti arabi e islamici che se da un lato deprecano l’azione del governo Clinton, dall’altro si guardano attentissimamente dal fare alcunché di concreto e di coordinato contro di essa, sì da non dare spago alle aspettative di massa (tutti, nessuno escluso, pur se con le diversità del caso, ché Gheddafi o Saddam non sono, non possono essere, "tali e quali" un re Fahd o un Hussein di Giordania).

Lo si è visto anche nella moderatissima reazione delle forze direttamente colpite. I capi dei Taleban, benché impossibilitati (al momento) a consegnare il rifugiato-ricercato, si sono precipitati a rassicurare i loro sponsor-addestratori: "non preoccupatevi, non ci sarà alcuna vendetta contro di voi, o per lo meno alcuna vendetta in Afghanistan, o partendo dall’Afghanistan". Non meno rassicurante la risposta del governo sudanese e di al-Tourabi, da anni presentati, rispettivamente, come la centrale operativa principe e la mente-guida del "terrorismo mondiale". "Nessun atto di guerra verso gli USA. Reagiremo esclusivamente con mezzi legali", hanno giurato. E subito dopo hanno confezionato e spedito a quel covo di brigantaggio e di guerra che è l’ONU la richiesta di una commissione di inchiesta per accertare quello che l’ONU avrebbe (in astratto) potuto dire una frazione di secondo dopo l’aggressione USA, visto che dei suoi inviati l’avevan visitata di recente: e cioè che la fabbrica colpita produceva realmente e solo medicinali (anche per l’ONU).

L’appello alla legalità internazionale (è il medesimo appello che i palestinesi fanno da mezzo secolo contro le "violazioni israeliane", con quale esito si sa) degli stessi ambienti islamici istituzionali più "radicali", è suonato tanto più impotente e dimissionario perché è caduto mentre Clinton, l’Albright ed il ministro della guerra statunitense pisciavano ostentatamente sulle "prerogative" dell’ONU, la autorizzazione preventiva a fare questo e quello, la fornitura di prove, e consimili bazzecole da causidici che tanto elettrizzano i sacchi vuoti pacifisti. Gli USA colpiranno dovunque siano in qualche modo toccati i propri interessi (di sfruttamento, di dominio e di saccheggio), e nessuno ha il diritto di chiedere loro alcunché, né prima, né dopo (poiché il diritto lo ha chi ha la forza). Onore al merito della chiarezza di questi banditi!

La scelta di colpire proprio Sudan, Afghanistan e Pakistan non ha nulla di casuale e di incomprensibile.

Dopo il mancato blitz anti-iracheno della scorsa primavera, le masse arabo-islamiche dovevano essere aiutate a non dimenticare la frusta del padrone e a non illudersi di poterlo ancora impunemente sfidare. Ed i governi arabo-islamici che col loro sgradimento avevan concorso a fermarlo, a non attribuirsi erroneamente una sorta di potere di veto sulle iniziative del padrone. Per questo era necessario colpire dentro il mondo arabo, ed il Sudan (nonostante la sua buona condotta "anti-terroristica" certificata dalla consegna di Carlos e dalla cacciata di Ben Laden) era il bersaglio appopriato. Sia in quanto centro di irradiazione dell’islamismo in tutta l’Africa, che per essere uno degli stati arabi più dinamici nel tentare di tessere una trama di cooperazione economica e di "mutuo aiuto" tra gli stati islamici, uno tra gli stati del Terzo Mondo non ancora completamente proni agli ukase del FMI. Vero è che il FMI aveva appena giudicato "soddisfacente" la performance economica del Sudan, assoggettato anch’esso alle sue amorevoli cure (Paesi arabi, luglio 1998); ma una raffica di bombe può essere un buon coadiuvante nel convincere i governanti sudanesi a proseguire senza ripensamenti sulla via delle famigerate riforme strutturali, delle privatizzazioni, dell’apertura ai capitali occidentali, dell’immissione nel governo di esponenti al guinzaglio di Washington, etc. Colpire il Sudan, dunque, per colpire l’intero Islam arabo (altro che diversivo dal sexy-gate!).

D’altra parte, diciamoci la verità, poteva Washington lasciare senza la loro meritata razione di bombe gli islamici d’Asia, e i pakistani per primi, che così spropositatamente si erano esaltati per la conquista dell’atomica? E poteva forse mancare di ammonire i taleban in rapida avanzata verso le regioni a tradizione islamica dell’ex-URSS a non sognare di alcuna confederazione islamica d’area dotata di benché minima indipendenza, essendo quell’area di gas e petrolio a profusione destinata allo stretto, totalitario, esclusivo controllo USA? Certo che non poteva.

Lo stato complessivo sempre più critico del capitalismo mondiale non consente più al paese capofila del sistema imperialista d’esercitare "pacificamente" il suo dominio sui continenti di colore in nome dell’anti-colonialismo. Pur incubando da tempo, la catastrofica esplosione della crisi del sistema nel suo centro è stata finora evitata solo attraverso lo schiacciamento, la frammentazione, lo scannamento reciproco degli oppressi islamici e terzomondiali (mai dimenticare la guerra tra Iran e Iraq e le tante consimili guerre in questi anni impulsate dall’imperialismo). Per assolvere un tale compito l’imperialismo yankee, e l’imperialismo tutto, dovranno fare ricorso sempre più alla guerra aperta di lungo periodo all’Islam (ed al Terzo Mondo nel suo insieme), una soluzione questa per cui stanno accanitamente spingendo negli USA e fuori le potenti lobbies sioniste. "La guerra al terrorismo (islamico) è appena cominciata", ammonisce la Washington Post del 25 agosto. Un’altra via, più soft, non c’è. Il suggerimento di "prendersi cura dei problemi islamici", infatti, è solo una misura complementare all’uso del terrorismo di stato, e non ha altra valenza del pretesco consiglio di un Prodi: "colpiamoli, ma stiamo anche attenti a manovrare in modo accorto per dividerli e impedire loro qualsiasi risposta unitaria". Un consiglio dalla sostanza interamente imperialista dietro al quale si allineano in buon ordine i terribili "comunisti" di Rifondazione, candidandosi (come i non proprio antagonisti Fanfani, Mattei, Moro e così via) a viscidi sensali tra un Islam azzannato alla gola e il Dracula imperialista azzannatore, per non parlare poi dei pidiessini alla Ranieri che vestono il Dracula aggressore dei panni della vittima, per cui se "gli americani reagiscono, vanno compresi in pieno"...

Questa radicalizzazione obbligata dell’aggressione imperialista agli sfruttati del Terzo Mondo, mentre fa crescer le ragioni di scontento delle stesse classi borghesi e piccolo-borghesi terzomondiali, riduce però progressivamente i margini di manovra delle borghesie "nazionali", anche di quelle meno strettamente allineate, facendone risaltare, più che l’inconseguenza, l’impotenza a contrastare gli assalti reiterati delle potenze imperialiste. Alle masse sfruttate dell’Islam e del Terzo Mondo, per converso, l’esperienza diretta sta insegnando che l’imperialismo non può essere battuto senza la lotta più determinata, senza la vera jihad di classe, senza l’unificazione internazionale del fronte degli sfruttati.

A questo bisogno acuto di una vera guerra all’imperialismo e di un vero internazionalismo degli oppressi che sta maturando nell’Islam (e nel Terzo Mondo), nessuna frazione dell’islamismo militante potrà mai dare una risposta soddisfacente, così come non l’hanno potuto in passato né il nazionalismo arabo, né il "fronte" (mai realmente poi costituitosi) dei paesi "non allineati" né il khomeinismo. Figurarsi se lo potrà un Bin Laden (ancorché la sua organizzazione si chiami, emblematicamente, se le informazioni sono esatte, "Musulmani contro l’oppressione globale"). Lo potrà solo ed esclusivamente un proletariato occidentale, un proletariato internazionale ritornato a combattere coerentemente contro l’imperialismo, per il comunismo. E’ a questa rinascita, che passa oggi per la solidarietà incondizionata e militante alle masse lavoratrici oppresse dall’imperialismo, che i comunisti internazionalisti consacrano tutta la loro attività.

Note

(1) Come spiega G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Einaudi, 1996, il termine sceicco (in arabo: shaykh) è un termine che nel corso della lunga storia dell’Islam (che attraversa più modi di produzione e più continenti) ha assunto molteplici significati: da quello di vecchio o anziano capo-tribù scelto dall’assemblea tribale per il suo carisma, a quello più generico di dotto o maestro di religione e di vita (talvolta a capo di una confraternita), fino a quello di capo-villaggio (in Egitto), di autorità governativa pure urbana (in Mesopotamia) o finanche di capo-gilda o corporazione. Anche oggi il termine mantiene, in contesti sociali molto diversi da quelli che l’hanno originato, una sua polivalenza. E’ riservato, in ogni caso, a persone cui viene riconosciuta una particolare autorità morale.

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