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Donna

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DONNA E IMPEGNO POLITICO

Indice

Nel nostro giornale, già altre volte ci siamo occupati della questione femminile. Puntiamo ora i riflettori su un aspetto di essa ben preciso: la limitata attivizzazione delle donne nelle lotte sociali e la loro scarsa partecipazione all'attività politica. Si tratta di un dato di fatto che, a nostro avviso, porta acqua al mulino della stabilizzazione sociale. E che, di conseguenza, pesa negativamente sulla stessa condizione delle donne, sulla lotta immediata della classe operaia e, ingenerale, sulla comune battaglia di tutti gli sfruttati e gli oppressi per l'emancipazione sociale. E' possibile superare questo ostacolo? E se sì, in che modo? Qui di seguito solo una prima presa di posizione, con cui invitiamo i lettori e i compagni a confrontarsi, inviandoci loro osservazioni e prese di posizione in proposito.

Cominciamo dall'inizio. E cioè, cominciamo col chiederci: perché è così difficile la piena partecipazione della donna (e ancor più della donna proletaria) alla vita sociale e politica? Non certo per una sua immutabile proprietà naturale. All’origine del "fatto" c'è un dato storico, c'è il ruolo sociale assegnato alla donna da millenni: quello di essere rinchiusa in casa, a occuparsi dei figli, della vita domestica e dei desiderata sessuali dell'uomo.

Un'opinione molto diffusa, anche a sinistra, crede che questo ruolo, nella sua sostanza, non può essere cambiato, perché discende dalla funzione biologica svolta dalla donna nella riproduzione. Ma una corrispondenza biunivoca tra questa funzione biologica e quel ruolo sociale esiste solo nelle società di classe. Ci fu un'epoca, quella del comunismo primitivo, in cui la maternità non condannava la donna all'asservimento e all'isolamento sociale, anzi le dava un ruolo di vera protagonista nella vita collettiva del clan. Non solo: lo sviluppo delle forze produttive avvenuto nel frattempo nel processo storico (per entro l'utile calvario delle società divise in classe) ha ormai creato quelle condizioni materiali, che, inquadrate in un'organizzazione comunistica matura, non faranno più della maternità la croce della donna. E questo semplicemente perché l'economia domestica, la vera palla al piede della donna, sarà trasformata in servizio pubblico e la maternità, la più alta delle funzioni sociali, non sarà più in contrasto con la partecipazione della donna al lavoro produttivo generale. Le condizioni materiali per operare un rivolgimento del genere esistono già oggi. Le ha create il capitalismo. Ma il capitalismo, al di là delle sue roboanti promesse, le ha usate, le usa e le continuerà a usare per sé, senza spezzare fino in fondo l'isolamento della donna della cui soppressione ha pur posto le basi.

Qualche lettore potrebbe obiettare: questo non è vero; il capitalismo ha inserito la donna nel processo produttivo che si svolge fuori dalle mura di casa, nelle fabbriche e negli uffici; le ha quasi riconosciuto la completa parità giuridica con l'uomo; sì, ancora c'è molta strada da fare, però, piano piano... Non neghiamo affatto questi cambiamenti (non pochi dei quali sono stati il risultato di dure battaglie date dalle donne e dal movimento operaio). Quello che neghiamo è che essi possano portare, entro la società borghese, all'eliminazione definitiva della marginalizzazione della donna dalla vita sociale. Per varie ragioni, tra loro intrecciate.

Innanzitutto la società borghese ha permesso l'inserimento nel lavoro extra-domestico solo a una parte delle donne. Un gran numero di esse rimane in casa e spende tutte le sue energie -fisiche e spirituali- nella sfiancante, monotona ed esclusiva ripetizione dei lavori domestici.

La donna che lavora fuori casa, poi, non per questo ha una piena vita sociale: quando esce dalla fabbrica o dall'ufficio, inizia il suo lavoro domestico. Un lavoro che fa gravare sulle sue spalle non solo i "doveri pratici" connessi alle cure famigliari, ma anche quelli "morali": preoccupazioni e attenzioni per quello che accade -su ogni piano- ai figli e al marito, cura delle "public relations" con parenti e amici, etc.. (Senza contare poi che, con l'aggravamento della crisi capitalistica, è colei che si fa carico delle più grandi privazioni pur di far reggere a galla la barca famigliare)

Presa com’è da queste incombenze, assorbita nella sua energia vitale dalle preoccupazioni "spirituali" che vi sono connesse, come può la donna, lavoratrice o no che sia, sviluppare pienamente la propria personalità umana o darsi all’impegno politico? Come può "staccare" da un simile lavoro full time e concentrarsi su un impegno "esterno" alla famiglia?

Il capitale ha sì condotto una parte delle donne all’esterno della casa, ma solo per sfruttarla ancor più dell'uomo, per trasformarla in una nuova catena al collo del lavoratore e per lasciarla, nello stesso tempo, prigioniera di quest’ultimo nelle mura di casa. In questo modo la società borghese non ha mutato di un'acca l'assunto su cui si sono fondate le precedenti società di classe: l'uomo è finalizzato alla vita sociale, la donna -su tutti i piani- è finalizzata alla vita sociale dell'uomo.

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La donna e la vita politica nella società borghese

Solo partendo da qui, dal ruolo della donna nella produzione e riproduzione della vita sociale, si può spiegare come mai essa partecipa marginalmente all’attività politica.

Ella è, prima di tutto, frenata dalle contraddizioni materiali in cui vive, ostacolata soggettivamente dal giudizio sociale (altrui e proprio) che la fa sentire in colpa per la trascuratezza dei suoi doveri familiari.

Questa condizione di fondo le rende, poi, quasi impossibile pervenire a quella preparazione specifica che occorre avere, nella società borghese, per occuparsi di politica. Questo aspetto della divisione sociale del lavoro produce automaticamente la marginalizzazione della donna dalla vita politica o la sua collocazione in incarichi che si suppongono più confacenti alla sua natura sessuale. L'espediente delle "quote" fissate per legge, anzichè promuovere la partecipazione della donna all'attività politica, serve appunto a ratificare questa realtà, ad azzerare il protagonismo politico delle donne e ad inserirle nell'organizzazione-partito in posizione subordinata.

Così, anche quando è in grado di spezzare i vincoli domestici che la trattengono e si inserisce in modo non subordinato nell’attività di un’associazione o di un partito politico borghese (di "destra" o "sinistra" che sia), la donna è costretta a farlo nei modi e nelle forme stabiliti dal capitale: ad essa viene delegata la rappresentanza della "specificità" in una chiave tutta strumentale al procacciamento del consenso dell'universo femminile all'ordine borghese e, per di più, se ella vuole farlo ai "massimi livelli", è costretta di fatto a diventare un "maschio" (alla Rosy Bindi, tanto per fare un esempio).

Il capitalismo non può modificare questa realtà, perché la totale trasformazione del lavoro domestico in servizio pubblico (di cui pure la società borghese introduce dei germi) richiede l'abolizione del criterio mercantile di funzionamento dell'economia. Il mantenimento di un tale stato di cose, poi, è conveniente per il capitale anche da un punto di vista politico, perché la segregazione della donna è un intralcio politico allo sviluppo della lotta di classe degli sfruttati e degli oppressi contro la borghesia e l'ordine borghese.

Ma sarà la stessa morsa delle catene con cui la società borghese le tiene avvinghiate a costringere le donne a tornare alla ribalta politica. E' quello che sta mostrando la stessa realtà di oggi, se appena la si guarda un po' in profondità e si apprezzano nella loro giusta portata alcuni segnali di resistenza e di ribellione di cui parliamo in altra parte del giornale. Sono solo gli assaggi della riesplosione della ribellione delle donne che il capitalismo e la sua crisi stanno metodicamente preparando, nelle periferie del mondo come nelle sue metropoli.

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Un risveglio da non temere.

Il proletariato non deve temere un tale risveglio. Dalla conservazione dell’oppressione della donna e dalla sua esclusione dall’impegno sociale e politico, da tutto ciò il proletariato non ha niente da guadagnare ma tutto da perdere. Egli ha interesse che le donne si mobilitino, che la rabbia, le sofferenze e le "isterie" che covano nella loro solitudine e subordinazione si traducano in attivizzazione sociale e politica. Sarà così incrinata la posizione privilegiata dell’operaio nella sfera privata? Perderà la sua "tranquillità" domestica? Sicuramente. Ma cosa perde in realtà in questo modo? Un privilegio che serve a mantenere la sua stessa schiavitù. Ne guadagnerà invece la sua lotta contro l’offensiva capitalistica, perché la borghesia non troverà più nelle donne una docile massa di manovra, un elemento di divisione e di contraddizione in seno al proletariato. Ne guadagnerà la sua lotta storica di emancipazione dallo sfruttamento capitalistico perché una tale rivoluzione sociale non può realizzarsi senza la piena partecipazione di tutti gli oppressi e, tra questi, in posizione privilegiata, delle donne. La storia delle precedenti rivoluzioni sociali lo conferma in pieno.

Tutti gli sconvolgimenti che hanno rotto un ormai antiquato sistema sociale hanno sempre visto la totale partecipazione delle masse femminili. E non semplicemente in posizione subordinata, a rimorchio dell’azione rivoluzionaria degli oppressi di sesso maschile. E’ stato vero con il cristianesimo. E' stato di nuovo vero con la rivoluzione anti-feudale. Nell'uno come nell'altro caso, però, la donna fu ricompensata con una pronta "islamizzazione" ante-litteram: la sua precedente oppressione fu riconfermata, su nuove basi, sia dalla cristiana società feudale che dalla laica società borghese. Non sarà così, per le ragioni già dette, solo nella rivoluzione socialista.

Ma se le donne hanno interesse a legarsi alla battaglia per la preparazione e la vittoria di quest'ultima, è altresì vero che questa battaglia non potrà trionfare senza la piena integrazione in essa del potenziale rivoluzionario disperso nelle case o schiacciato nella duplice soggezione al capitale e al sesso maschile.

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I comunisti e la lotta delle donne

Come OCI riprendiamo questa classica posizione del marxismo e ci sentiamo impegnati a creare le condizioni soggettive più adatte per favorire l’attivizzazione politica delle donne e l'integrazione della loro lotta nella più generale battaglia di classe contro il capitalismo. Lo facciamo con la piena consapevolezza del ritardo specifico che sconta su questo terreno il movimento operaio e comunista in aggiunta al suo più complessivo ritardo rispetto alle necessità poste dallo scontro di classe internazionale.

Lo facciamo sapendo che (come ha mostrato per ultimo l’esperienza degli anni sessanta e settanta) la scesa in campo delle donne (non diversamente da quella di tutti gli sfruttati e tutti gli oppressi) avrà un percorso tortuoso. Che potrà anche non essere, e probabilmente non sarà, immediatamente convergente con la mobilitazione operaia. Che all'inizio potrà addirittura presentarsi sotto la forma della "separatezza femminile", quale primo momento per conquistare, nella lotta, la consapevolezza della propria duplice oppressione. Lo facciamo, inoltre, sapendo che la ribellione delle donne può restare preda, se lasciata a se stessa, di una politica illusoria, fondata sulla vana speranza di difendersi (ed emanciparsi) attraverso un "dialogo costruttivo" con le istituzioni statali borghesi e una lotta al di fuori dello scontro tra capitale e lavoro.

Da tutta questa serie di difficoltà, però, non deriva -per noi- la conclusione che allora è meglio "lasciar stare" ed "evitare pericolosi contagi e sviamenti". Quante volte abbiamo sentito ripetere nel movimento operaio un ragionamento che suona più o meno così: dato che la completa emancipazione della donna può realizzarsi solo nel socialismo; tenuto conto che la gran massa delle donne, oggi come oggi, svolge oggettivamente un ruolo di conservazione sociale; tenuto conto, infine, che l'operaio (o il compagno) combatte meglio se, come il guerriero, ha la sua serva e la sua concubina, allora, per il bene della "causa", la donna del proletario (o del compagno) deve rimanere sottoposta al suo uomo, servirlo in attesa della conquista del potere e, se proprio vuole partecipare all'attività politica, lo faccia in posizione subordinata, lasciando fare, senza creare tanti problemi, "chi è più capace".

Una posizione del genere è dannosa (come insegna l'esperienza del partito che ne ha fatto la propria bandiera: quello stalinista) per la lotta difensiva del proletariato e tanto più per la sua lotta di emancipazione sociale, perché pretende di fare l'una e l'altra cosa senza che si determini una delle condizioni che le rendono possibili. Al bando dunque, anche in questo campo, ogni indifferentismo. Sia nella battaglia politica esterna dell'organizzazione comunista, che nella sua vita interna.

Sul primo versante, si tratta di prendere parte attiva alle lotte parziali che ingaggeranno le masse femminili (in realtà: che hanno già iniziato a ingaggiare); di sostenerle e potenziarle con l'apporto "esterno" della teoria e dell'organizzazione comunista in modo che esse, sulla base della loro spinta e con le armi della lotta di classe, si indirizzino contro le istituzioni da cui si origina l'oppressione della donna (cioè il potere economico e politico del capitale) e facciano avanzare la lotta generale (di sesso oppresso e di classe) per venire a capo di questa oppressione.

Ma l'avanguardia comunista può agire in questa direzione e favorire l'integrazione della lotta delle masse femminili con quella, immediata e storica, del proletariato, solo se, contemporaneamente, svolge un lavoro politico tra gli operai maschi contro i pregiudizi e le resistenze che si annidano in essi. E se questo lavoro viene prima di tutto portato avanti tra gli stessi militanti comunisti. Arriviamo così all'altro piano dell'azione del partito per favorire la partecipazione delle donne all'attività politica, quello relativo all'organizzazione della sua vita interna.

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Le donne e la militanza comunista

Vale qui, naturalmente, la tesi generale che nega ogni distinzione (e discriminazione) tra i militanti del partito basata sul sesso, perché l'unico termine di riconoscimento è quello -valido per tutti i compagni- di militante comunista. Si nega quindi ogni divisione del lavoro e delle responsabilità secondo lo schema borghese del più specializzato e del più capace.

Attenzione però a non far derivare da questa giusta premessa la falsa conclusione secondo cui le donne e le compagne, non appena diventano militanti comuniste, superano d'un colpo le contraddizioni e le difficoltà che, come donne, incontrano nella partecipazione all'attività politica. Sarebbe una conclusione completamente fuori della realtà (e si ricadrebbe con essa nella modalità borghese di trattare da uguali i diseguali, proprio per mantenerli tali).

Si tratta invece di tener ben presenti le "disuguaglianze" di partenza e, attraverso un'attività pianificata, lavorare -da subito- nella direzione di scardinare pregiudizi e classificazioni borghesi tra il militante uomo capace e specializzato e la militante donna esecutrice a lui sottoposta. Questo significa che, con adeguate misure, si tratta di lavorare per promuovere e rendere più qualificata la partecipazione della militante comunista alla vita di partito. E per elevare tutti i militanti -a cominciare da quelli di sesso maschile- a una coscienza comunista. E' questo un punto della massima importanza.

Ogni residuo di individualismo, di comode abitudini di nullafacenza di fronte ai lavori domestici della propria compagna, di demenziali pose da fico a caccia di donne (prostitute comprese), di sopraffazione con la propria moglie o compagna, ogni atteggiamento insomma che emula il "cittadino", in quanto schiavo della società borghese, non si inserisce nello sforzo che su questo terreno il partito tutto compie per elevare la coscienza dei suoi appartenenti alle necessità e ai comportamenti dell'uomo sociale. E' evidente che non ci prefiguriamo un partito di puri, di immuni da qualsiasi condizionamento sociale -ciò che costituirebbe una insensata utopia-, ma nondimeno, come comunisti, riteniamo che tutti gli aderenti devono uniformarsi e disciplinarsi a questo sforzo collettivo, perché il partito -oggi l'organizzazione- comunista vive e si realizza in quanto tale se riesce a sviluppare, in un lavoro realmente collettivo, un'attività (teorica e pratica) coerente al programma che lo definisce e finalizzata alla realizzazione di esso.

Questo sforzo coinvolge naturalmente, su un piano diverso, anche le compagne militanti comuniste. Che devono combattere la tendenza inerziale alla quale sono sospinte dalla forza dell'abitudine e trovare, nella partecipazione alla vita politica, motivo di superamento di ogni resistenza all'impegno, perché è attraverso questo che si guadagnano la prospettiva della liberazione, loro e di tutte le donne, e la conquista, sul campo, del ruolo attivo all'interno del partito comunista necessario alla realizzazione di questa prospettiva.

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